La Relazione alla Commissione Accertamenti

Relazione

sull’operato del comandante della XI armata

in dipendenza ed a seguito

dell’armistizio dell’8 settembre 1943

 

Avevo assunto il comando dell’11ᵃ Armata sotto la data del 3 maggio 1943. Non mi dilungo sulle condizioni morali, disciplinari ed operative in cui trovai l’armata: mi limiterò a far cenno di quanto, influenzando la mia condotta, ha determinato taluni miei apprezzamenti ed atteggiamenti durante le vicende che seguirono all’armistizio dell’8.IX.1943.

Mappa della Grecia con l'indicazione dei principali luoghi citati nella Relazione
Mappa della Grecia con l’indicazione dei principali luoghi citati nella Relazione

Pochi giorni dopo l’assunzione di comando ricevetti dal Comando Supremo una lettera diretta a tutti i comandanti dei Balcani, nella quale – premesso che il Comando stesso non era in condizioni di fornire altri aiuti per quello scacchiere – s’invitavano i comandanti d’armata che avessero ritenuto insufficienti al rispettivo impiego operativo le truppe ed i mezzi di cui disponevano, di proporre adeguata riduzione di compiti. Coerente a quanto avevo in proposito sostenuto nella mia precedente qualità di Sottocapo di S.M. operativo dell’Esercito [1], proposi di togliere dal Peloponneso le divisioni italiane Piemonte e Cagliari per passarle rispettivamente in Etolia-Acarnania [2] Isole Jonie [3] ed in Attica-Beozia[4], sganciando dallo schieramento di quest’ultima regione la divisione Brennero (del tipo A S 42 e quindi auto trasportabile) ed assegnandole il compito di riserva d’armata. Poiché il 18 maggio avrei dovuto conferire col gen. Loehr[5], comandante del Gruppo di armate tedesco di Salonicco, che aveva compiti di coordinamento nei Balcani, chiedevo di poter accennare a quest’ultimo l’opportunità di sostituire con truppe tedesche quelle italiane del Peloponneso.

Il gen. Alexander Löhr
Il gen. Alexander Löhr

Mi fu risposto che “non era quello il momento di cedere territori”; che tuttavia avrei potuto fare l’accennoproposto in forma del tutto personale. Recatomi il 18 maggio a Salonicco, ci trovammo d’accordo col gen. Loehr nel ritenere ormai esposta la Grecia occidentale per effetto della perdita del dominio o controllo dell’Africa del Nord da parte dell’Asse. Ma mentre i Tedeschi si preoccupavano particolarmente del Peloponneso occidentale, io prospettai il pericolo che minacciava in particolare le Isole Jonie, scarsissimamente presidiate. Il gen. Loehr ne convenne, ma – mentre mi annunciava il prossimo arrivo in Peloponneso di una divisione corazzata e forse di altre truppe – mi preveniva che nulla era previsto per le isole e accennava che io avrei potuto approfittare della detta affluenza di unità tedesche per spostare verso nord il centro di gravità delle truppe italiane di Morea[6].

Riferii quanto precede al Comando Supremo manifestando il proposito di mettere in atto, appena e in quanto possibile, il suggerimento del gen. Loehr, che, senza saperlo, era venuto incontro alle mie idee.

Il gen. Ezio Rosi
Il gen. Ezio Rosi

Dal I° giugno l’armata passò a far parte del Gruppo d’armate E, retto dal gen. Rosi,[7] con sede a Tirana.[8] Detto proposito fu accennato al comandante di Gruppo armate ottenendone l’approvazione di principio, tanto più che egli aveva potuto constatare di persona le infelici condizioni difensive delle Isole Jonie, di Cefalonia in particolare, dove, ad esempio, gli ostacoli anticarro consistevano in parecchi km di muri a secco.

Per contro il nuovo comando a me superiore mi sottrasse, poco dopo, malgrado le mie rimostranze, la divisione Brennero, costituente l’unica possibile riserva mobile di Armata, per trasferirla in Albania.

In tale situazione (mancata accettazione della proposta di cessione del Peloponneso ai Tedeschi, riduzione di forze particolarmente preziose perché mobili e modernamente armate) dovevo vedere con favore, sotto l’aspetto operativo, l’affluenza in Grecia di alcune divisioni tedesche in più della preannunciata Iᵃ corazzata, che – oltre a migliorare  la  situazione  delle forze in quel paese – avrebbe anche potuto consentirmi di raccogliere, in modo più organico ed aderente al proposito da me enunciato ai Comandi  superiori, quelle italiane.

Chiesi infatti subito a metà giugno ai Tedeschi di inserire nello schieramento costiero del Peloponneso occidentale una loro divisione ivi affluente, liberandone aliquote della Piemonte di spostarsi più a nord. La richiesta non venne accolta per ragioni di addestramento d’insieme di detta divisione tedesca che, mi si disse, era di costituzione recente. Soltanto più tardi, con l’arrivo e inserimento nella copertura costiera di due battaglioni da fortezza tedeschi, potei trasferire a Zante un reggimento della Piemonte.

Ai primi di luglio mi giunse notizia che si prospettava il passaggio dell’intera armata alle dipendenze dei Tedeschi.

Rappresentai al gen. Rosi l’inopportunità dal punto di vista morale di un tale passaggio di dipendenza. “L’armata, dicevo, è già in precarie condizioni di spirito per cause varie di cui la principale è costituita dalla lunga permanenza in questo scacchiere; ben pochi soldati hanno rivisto la Patria da meno di due anni, varie decine di migliaia non la rivedono da 30 mesi, circa 12.000 da 36. Il passaggio alle dipendenze dei Tedeschi darebbe alle truppe la sensazione, errata certamente ma inevitabile, che la Patria si disinteressa di loro”.[9] Il gen. Rosi mi ha successivamente informato di avere spedito al Comando Supremo copia di quanto da me esposto, a sostegno di sua analoga tesi contraria al distacco dell’11.ma dal suo Gruppo d’armate.

L'aeroporto di Kalamaki oggi
L’aeroporto di Kalamaki oggi

Si giunse frattanto al 25 luglio. Il cambiamento di regime in Italia non ebbe, in sé e per sé, ripercussioni durevoli sullo spirito delle truppe, come chiarirò più oltre. Ci furono invece vari segni di malumore da parte dei Tedeschi, i quali avevano nel frattempo fatto affluire in Grecia 5 divisioni. Il più significativo fu l’incidente di Kalamaky.

Era in detta località nei pressi del Falero [10] un grande campo di aviazione. Come quasi ovunque in Grecia, esso era di pertinenza tedesca con una piccola sezione italiana. Il giorno 1° agosto, in occasione della venuta in Atene del maresciallo von Weichs[11], i Tedeschi fecero nel loro settore presso Atene un esperimento di allarme.

Il Feldmaresciallo Maximilian von Weichs
Il Feldmaresciallo Maximilian von Weichs

Durante l’esecuzione di questo, gli avieri tedeschi del campo assalirono improvvisamente e disarmarono le guardie alla sezione italiana; un nostro aviere che oppose resistenza fu ucciso. Liquidai l’incidente in modo abbastanza soddisfacente (scuse ed assicurazioni, condanna dell’ufficiale responsabile a 3 anni di fortezza) ma venni nell’occasione in possesso di elementi che indiscutibilmente provavano l’esistenza di un piano per mettere in scacco le truppe italiane nel caso di rottura dell’alleanza.[12]

Frattanto, in data 28 luglio, e non certo sotto i migliori auspici, l’armata aveva preso il carattere di armata mista italo-tedesca, con uno S.M. operativo tedesco affiancato a quello italiano, ed assunto l’ordine di battaglia e lo schieramento indicati nell’allegato n° 1[13]. Come io stesso dovetti riconoscere, questo schieramento, concertato fra i due Comandi Supremi, era dal punto di vista operativo il più razionale; in quanto attribuiva compiti prevalentemente statici (salvo sporadica partecipazione a rastrellamenti antiribelli e pertanto prevalentemente sotto l’aspetto difesa delle coste) alle unità italiane, meno mobili e meno modernamente attrezzate, e il compito di manovra alle divisioni tedesche: le prime dislocate a larghe maglie lungo le coste, le seconde raccolte in seconda schiera. Tale situazione sarebbe diventata ovviamente delicatissima per le truppe italiane in caso di disaccordo fra alleati. Ma al mio rapporto circa l’incidente di Kalamaky e relativa denuncia dell’esistenza di un piano tedesco contro di noi, il Comando Supremo rispondeva con la direttiva di “tener ben fermo che noi combatteremo fino alla fine a fianco dell’Alleato”.[14] A tale formula ed a precisazione di responsabilità, replicavo: “Applico direttiva ricevuta nella lettera e nello spirito”.

Mi sembra opportuno sottolineare fin d’ora come, in vista del futuro, avrebbe potuto esser bene accompagnare tale direttiva ufficiale con altra confidenziale in cui, pur mantenendo il segreto sulle vere intenzioni superiori, mi si mettesse in guardia contro l’eventualità che il piano tedesco, sempre più aggiornato con le facilitazioni derivanti dalla stretta collaborazione inerente il funzionamento dell’armata mista, dovesse un giorno trovare effettiva attuazione.

Per contro la direttiva ricevuta, l’inizio non lieto della vita dell’armata mista e la propaganda greca volta a seminare zizzania tra i due alleati, mi obbligavano a dimostrare e ad impormi la più sicura fiducia sulla assoluta impossibilità di una tale evenienza e ad adoperarmi per cementare sempre più la concordia e la cameratesca collaborazione tra unità e comandi delle due nazionalità, in relazione al compito operativo dell’armata: pacificare la Grecia ed opporsi a sbarchi anglosassoni sul suo territorio.

Così ad esempio, mentre mi ero opposto in giugno (su analogo quesito del gen. Rosi) all’invio a Zante di un btg. da fortezza tedesco: per ragioni politiche dato il particolare regime delle Isole Jonie, e per la forza, all’incirca doppia di quella dell’unico btg. italiano che allora costituiva tutto il presidio dell’isola, in agosto mandai io stesso una simile formazione colà, in rinforzo al 3° reggimento fanteria della Piemonte ivi spostato dal Peloponneso; e due battaglioni da fortezza venivano mandati a Cefalonia.[15]

Oltre la forza, consigliava l’invio di tali formazioni nelle zone da fortificarsi rapidamente la loro sovrabbondanza, sia di armamento sia di materiali fortificatori, che il comando dì Salonicco assegnava invece con grande parsimonia alle unità italiane, cui ormai nulla di tali materiali più giungeva dall’Italia.

La concordia degli animi cercai di favorire soprattutto nell’interno del mio comando, dove nessuna disposizione operativa o addestrativa veniva presentata alla mia firma se non collaudata dai due S.M.: ciò per il prestigio del comandante italiano, le cui disposizioni non dovevano essere eventualmente discusse dai dipendenti Comandi tedeschi. Ed in verità in tale materia l’affiatamento era perfetto.

Per contro, in agosto, non ottemperai a ordini di Salonicco concernenti il trattamento delle popolazioni del paese occupato e sollecitai disposizioni del Comando Supremo italiano in relazione a talune prescrizioni di rigore ordinate del gruppo armate che non corrispondevano alla nostra pratica in materia.[16]

Arrivai così ai primi dì settembre senza che alcun indizio mi permettesse di lontanamente supporre che fosse imminente un armistizio separato dell’Italia. Anzi elementi vari dovevano confermarmi nell’idea che tale eventualità fosse da scartare. Infatti:

  • era stata costituita l’armata mista che aveva uno schieramento con tale ipotesi inconciliabile;
  • il III Corpo d’Armata doveva essere trasferito in Albania, previa sostituzione con truppe tedesche da me non dipendenti; con che si veniva ovviamente a modificare a pregiudizio delle rimanenti truppe italiane dell’armata mista la loro proporzione con le truppe tedesche;
  • in relazione a tale fatto, il Capo di S.M. dell’armata,[17] che era in licenza in Italia per la morte di un fratello, veniva trattenuto a Roma per trattare insieme con rappresentanti tedeschi presso il Ministero degli Esteri e il Comando Supremo, in collaborazione col titolare della nostra rappresentanza diplomatica in Atene ministro plenipotenziario Ghigi, del regime da applicarsi nelle zone già di pertinenza del llI° Corpo d’Armata; quindi apparentemente clima di intesa e di collaborazione fra i due alleati;
  • il primo di settembre m’era giunta una lettera del Comando Supremo in data 15 agosto con la quale, riferendomi informazioni secondo cui le mie truppe, in conseguenza del cambiamento di regime in Italia, avrebbero perduto in combattività con tendenza ad accostarsi ai Greci, mi si invitava ad energicamente reagire. Avevo visto in questa lettera il riflesso del lavorio della propaganda greca tendente a metter male fra i due alleati ed avevo risposto in data 7 settembre, che nessun affievolimento di spirito combattivo era conseguito dal cambiamento di Governo, in quanto – se qualche ripercussione c’era stata nei primi giorni – presto la situazione si era normalizzata per l’assidua propaganda fatta in base ai noti proclami governativi che confermavano il proposito di combattere fino alla fine a fianco dell’alleato, nonché in conformità del principio stabilito dal comandante dell’armata: doversi sacrificare ogni moto dell’animo riflettente le proprie tendenze politiche sull’Altare della Patria, per dirigere ogni sforzo esclusivamente al raggiungimento della Vittoria.
  • obbiettivamente come sempre, soggiungevo che, innegabilmente, continuavano a sussistere le vecchie cause di disagio, che nei quattro mesi di mio comando ero riuscito a mitigare ma non ad eliminare, consistenti nello spinoso trinomio: licenze-avvicendamenti, disservizio postale, difficoltà per i viveri. A ciò s’era venuto ad aggiungere negli ultimi tempi l’effetto delle disgraziate operazioni di Sicilia e Calabria.[18] Ne era conseguita una certa recrudescenza delle diserzioni (ed avevo preso adeguati provvedimenti), ma i reparti erano sostanzialmente saldi come dimostravano diuturnamente negli scontri coi ribelli imbaldanziti per l’errata presunzione di un nostro collasso. Citavo in particolare il presidio di Almiros[19] che, attaccato per tre notti in una settimana da forti bande, si era sempre esemplarmente difeso;
  • dei dissidi col Comando tedesco, del convegno di Bologna[20] ecc., io ebbi notizia retrospettiva solo al campo di concentramento dai giornali tedeschi.

A tarda sera del 7 settembre, dopo ritiratosi dalla mensa il Capo di S.M. tedesco, il gen. Gandini (finalmente rientrato dall’Italia) mi rimetteva segretamente una comunicazione del Comando Supremo contenente un “promemoria” che doveva servirmi di orientamento.[21]

Non ritengo opportuno riportare qui il contenuto di detto promemoria, sul quale ho mantenuto il segreto.[22] Dirò solo che, a complemento di esso e riferendosi a colloqui avuti con altissime autorità militari in Italia, il gen. Gandini sintetizzò la situazione all’incirca così: “L’Armata è sacrificata; si fa affidamento sull’abilità del comandante e sul prestigio da lui acquistato presso i Tedeschi per salvare le truppe dallo sterminio o dai terribili campi di internamento”.

Esaminata a fondo la situazione, decisi, tenendo presente la necessità di evitare modificazioni di programmi che, messe in relazione con il ritorno del Gen. Gandini da Roma, potessero lasciar sospettare l’arrivo di segrete istruzioni:

  • di recarmi, secondo quanto già stabilito e noto ai comandi tedeschi ed italiani interessati, il 10 mattina ad Agrinion presso il comando VIII° Corpo d’Armata dove avrei convocato anche il comandante del XXVI° per uno scambio di vedute ed eventuali accordi; avrei approfittato di una puntata a Missolungi, sede di comando della Casale, per convocarvi da Patrasso il comandante della Piemonte, intendermi con lui ed affidargli il compito di un primo orientamento anche del comandante della Cagliari;
  • di inviare, come ordinatomi, il documento in visione al comandante della Siena, utilizzando l’ordinaria corsa aerea del 9 mattina;
  • accelerare per quanto possibile il movimento del III° Corpo d’Armata;
  • rappresentare con una lettera urgente al Comando Supremo quanto appresso.

Premettevo che – dovendosi per il tenore stesso del documento ricevuto escludere ogni possibilità di aiuti – la situazione dell’armata, in caso di armistizio separato, sarebbe stata gravissima, in quanto certamente da parte tedesca non si era mancato di perfezionare quel piano di aggressione delle truppe italiane di cui già a fine luglio avevo denunciato l’esistenza, senza che da parte nostra – in dipendenza dell’orientamento nettamente confermatomi in quella occasione e della sottomissione dell’armata al Comando tedesco di Salonicco – fosse stato possibile provvedere ad adeguate contromisure. Rilevavo poi come:

      • la direttiva fondamentale ora impartitami (pur apparendomi, con il limitato orientamento di cui disponevo relativamente alle intenzioni superiori, la meno peggiore attuabile sul momento) era ben lontana dal garantire un risultato positivo in quanto ogni migliore accordo da me eventualmente raggiunto non avrebbe mancato di essere influenzato dalla condotta, nei riguardi dei Tedeschi, di altri comandanti italiani. E sotto questo riguardo già nel documento inviatomi esisteva una grossa sconcordanza che sarebbe stato necessario eliminare, tanto più che era data in forma condizionale[23];
      • l’armata era scarsissimamente dotata (l’autosufficienza teorica di un mese era stata realizzata all’incirca per i due terzi, sparsi tra i vari magazzini a partire da quello di Salonicco; particolarmente scarsi viveri e benzina; penuria di viveri anche per la popolazione nelle Isole Jonie tanto che si era dovuto inviare una nave di grano dell’Intendenza per la popolazione di Corfù) mentre i magazzini e le colonne di rifornimento sarebbero certamente stati i primi obbiettivi sia dei Tedeschi sia dei ribelli greci;
      • si prospettava urgentissimo, appena noto l’armistizio, il rimpatrio dell’armata: ciò sia per la situazione dei viveri sia per il clima morale che si sarebbe determinato per effetto dell’atteggiamento neutrale che l’armata avrebbe dovuto assumere (antipatie ambientali sia greche sia tedesche, eventuali dissidi interni). E poiché esso non sarebbe stato possibile se non col beneplacito dei Tedeschi, padroni assoluti dell’unica ferrovia di collegamento con l’Italia, del porto del Pireo ed in grado di dominare gli accessi agli altri porti con artiglierie ed aviazione, non mi appariva chiaro dal documento ricevuto quali fossero le intenzioni superiori al riguardo, che pregavo di chiarirmi.

Concludevo che – mentre, in difetto di meglio, mi sarei attenuto alle direttive impartitemi – pregavo il Comando Supremo di darmi possibilmente tempo ed assistenza per realizzare una situazione meno disastrosa. In questo senso mi trovavo casualmente ad avere creato qualche premessa.

Infatti:

  • in conseguenza dell’annunciato trasferimento del III° Corpo d’Armata avevo ordinato all’Intendente di spostare la maggiore consistenza dei magazzini verso ovest;
  • avevo realizzato un certo spostamento di forze da Zante a Cefalonia e dal Peloponneso a Zante; in corso spostamenti di artiglierie dal Peloponneso verso le Isole Jonie;
  • al ministro Ghigi (in assenza del gen. Gandini) avevo dato come mia preferita soluzione per il citato problema del regime dei territori che dovevano essere sgomberati dal III° Corpo d’Armata quella di cederne le funzioni di occupazione ai Tedeschi, trasportare le forze italiane ricuperabili nella Grecia occidentale, col trasferimento del Comando d’armata in Epiro;
  • per mezzo del capo di S.M. tedesco e riferendomi particolarmente alla situazione di Corfù, avevo rappresentato a Salonicco come l’avanzata degli Angloamericani verso le Puglie e la conquista, che appariva già inevitabile, di quella regione dovesse determinare un deciso spostamento verso nord del centro di gravità della penisola Balcanica; ed avevo già in programma di intrattenere sull’argomento il gen. Loehr, la cui visita mi era stata preannunciata per metà settembre, prospettandogli l’opportunità di alleggerire la copertura costiera del Peloponneso, spostando la massa delle truppe di essa incaricate nella Grecia settentrionale.

Stavo appunto illustrando e consegnando al gen. Gandini le cartelle di questa lettera, che avevo in quel pomeriggio compilato rimanendo appositamente nel mio alloggio; ed era già stato predisposto un aereo per il suo urgente recapito a Roma, quando la Reuter[24] diede l’annuncio dell’armistizio.

Era urgente impedire che la macchina montata dai Tedeschi scattasse e determinasse quello sfacelo totalitario dell’armata, che avevo il compito di evitare.

Il ten. generale Heinz von Gyldenfeldt
Il magg. generale Heinz von Gyldenfeldt

Senza por tempo in mezzo feci chiamare il mio capo di S.M. tedesco gen. von Gyldenfeldt[25] ed alla presenza del gen. Gandini e del ten. col. Scoti[26] gli tenni questo discorso:  “La Reuter ha annunciato la conclusione di un armistizio tra l’Italia e gli Angloamericani. Non ci credo e mi auguro che si tratti di una notizia tendenziosa. Ma voi ed io dobbiamo ricordarci di Kalamaky, ed è perciò nostro dovere evitare ogni conflitto tra truppe italiane e tedesche. Perciò vi prego di comunicare subito a Salonicco al gruppo armate questi miei intendimenti per il caso che, in dannata ipotesi, la notizia fosse ufficialmente confermata; intendimenti che concreterò subito in un ordine per le truppe italiane di cui vi darò copia: 1°) Le truppe italiane non faranno atti di ostilità contro le truppe tedesche a meno non siano da esse attaccate, nel qual caso alla forza si risponderà con la forza; 2°) esse non faranno causa comune né coi ribelli greci né con gli anglosassoni se sbarcassero; 3°) Prendo impegno di mantenere efficiente la difesa costiera per un periodo di tempo da stabilirsi fino ad avvenuta sostituzione delle truppe italiane con truppe tedesche; 4°) Prego confermarmi che le unità tedesche si asterranno da ogni atto di violenza contro le truppe italiane.”[27]

Il telegramma cifrato diramato la sera dell'8.9.1943
Il telegramma cifrato diramato la sera dell’8.9.1943

Il gen. von Gyldenfeldt si recava a telefonare quanto sopra a Salonicco. Dopo circa una mezz’ora, durante la quale fu prodotto il telegramma riportato nell’allegato 2[28], tornava per comunicarmi che la notizia dell’armistizio era ufficialmente confermata e che le mia dichiarazione s’era incrociata (essendone superata) con un ordine pervenutogli da Salonicco col quale si esigeva da me risposta immediata al seguente dilemma:

  • o, non riconoscendo l’armistizio, continuare ad operare senza alcuna restrizione agli ordini del comandante Gruppo armate E;
  • o consegnare ai Tedeschi – senza condizioni – tutto l’armamento pesante ed i materiali. Altrimenti se ne sarebbero impadroniti con la forza.

Rispondevo di non poter accedere né all’una né all’altra richiesta e proponevo di rimanere nei termini della mia spontanea dichiarazione, la quale, in difetto di ogni conoscenza da parte nostra delle condizioni di armistizio e di ordini per me da parte del Comando Supremo italiano, costituiva la miglior soluzione provvisoria; e mentre pel momento consolidava la situazione di efficienza nei riguardi del duplice nemico, consentiva di provvedere a ragion veduta al da farsi per l’avvenire.

Il gen. von Gyldenfeldt replicava affermando di avere ordine di riferire entro pochi minuti la mia decisione circa il dilemma postomi. Gli chiarivo che dovevo escludere il primo corno del suo dilemma, in quanto già per ragioni di principio non potevo rendermi ribelle e sotto l’aspetto pratico, soprattutto pel fatto che gran parte delle truppe (probabilmente la maggiore) non mi avrebbe seguito. Ed allora mi sarei trovato nell’atroce situazione di dover combattere con una parte dell’armata contro l’altra, la quale si sarebbe ovviamente appoggiata ai Greci; estendendosi, come era verosimile, il fenomeno nell’interno delle singole unità, ne sarebbe risultato inevitabilmente  lo sfacelo dell’armata: e ciò io dovevo ad ogni costo evitare. Quanto al secondo corno era chiaro che nessun comandante avrebbe potuto aderirvi, specie per il tono minaccioso in cui era formulato. Si impegnava allora una concitata ma cortese discussione sulla minaccia che, per le truppe tedesche, avrebbe rappresentato, in caso di sbarco anglosassone, la cessione al nemico dell’armamento italiano, che il gen. von Gyldenfeldt riteneva logica conseguenza dell’armistizio. Gli replicavo che appunto perciò doveva accettare le mie proposte iniziali, con le quali si veniva ad escludere tale possibilità, in quanto in primo tempo le unità italiane (in deroga provvisoria all’armistizio, come dimostrava il tenore dell’ordine già in corso di diramazione del quale gli consegnavo una copia da me firmata) avrebbero combattuto contro le forze nemiche che tentassero di sbarcare; in secondo tempo avrebbero a ciò provveduto le truppe tedesche previa regolare sostituzione.

Con ciò la discussione si spostava sul materiale da posizione costiero ed io non opponevo difficoltà ad ammettere che, ritirandosi le truppe italiane dalla costa, dovessero cedere detto materiale in piena efficienza alle truppe tedesche subentranti, tanto più che esso era stato in gran parte fornito dallo stesso alleato. In compenso – e poiché la situazione degli spiriti quale appariva dal tenore della richiesta tedesca, e la situazione materiale dell’armata (ben nota al gen. von Gyldenfeldt) non consentivano una prolungata permanenza delle truppe italiane in Grecia – chiedevo che il comando tedesco provvedesse al trasporto dell’armata con tutto il suo materiale mobile in Italia, per i seguenti probabili impieghi: combattere il bolscevismo che si sviluppasse colà in conseguenza del turbamento provocato dall’improvviso armistizio, mantenere l’ordine pubblico, eventualmente riprendere la lotta contro l’attuale nemico se frattanto la situazione politico militare fosse venuta a cambiarsi. Ad un cenno di incredulità del generale quando accennai a quest’ultimo possibile impiego, replicai che nessuno di noi due era profeta, che non avevamo né l’uno né l’altro un orientamento sulla situazione fuori della Grecia, che un armistizio non è una pace ed è per costruzione denunciabile dall’uno o dall’altro dei contraenti;  e poiché il trasporto dell’armata in Italia,  prescindendo dal periodo di permanenza in difesa costiera, avrebbe richiesto non meno di due mesi e mezzo, ritenevo doveroso formulare anche questa  ipotesi. Il generale, presa nota scritta dei risultati della conferenza, si allontanava per darne comunicazione a Salonicco.[29]

A questo punto mi chiamava al telefono da Tirana il gen. Rosi chiedendomi “come l’avevano presa”. Lo informai dello stadio raggiunto a quell’ora dalle trattative, impegnandomi a mandare anche a lui – come poi feci – le notizie che al riguardo avrei riferito al Comando Supremo.

Il gen. Hubert Lanz
Il gen. Hubert Lanz

Verso le 23 mi venne annunciato che il gen. Lanz[30] desiderava conferire con me. Era questi il comandante del XXII° Corpo d’Armata tedesco il quale doveva sostituire in Tessaglia il nostro III° Corpo d’Armata. Si disse incaricato dal comando Gruppo Armate E di continuare le trattative iniziate da von Gyldenfeldt. Riferendomi al noto dilemma, io gli chiarivo come segue il motivo essenziale per cui ritenevo che – oltre alla questione di principio che non si poteva ignorare – gran parte delle mie truppe non mi avrebbe seguito nel caso di una mia secessione: “Da quando le operazioni di Sicilia avevano preso una piega assai sfavorevole, avevo dovuto lavorare non poco a raffrenare l’aspirazione dei Siciliani (che costituivano circa il 20% dell’armata) ad accorrere in difesa della loro terra.  In genere tutti i comandi mi riferivano che le truppe capivano sempre meno l’opportunità di rimanere in Grecia quando la Madrepatria (da cui erano da sì lungo tempo assenti) era direttamente minacciata. Avevo detto, scritto e fatto dire che, difendendo la Grecia, si difendeva indirettamente l’Italia in Adriatico e Jonio; che ciò facevamo in fraterna collaborazione coi Tedeschi così come essi facevano a fianco nostro in Italia. Ma era ovvio che tale argomentazione perdeva di valore – mentre lo stato di spirito dei Siciliani si sarebbe esteso necessariamente ai Meridionali e Centrali – man mano che gli Angloamericani progredivano nella penisola: ormai sarebbe diventato pressoché nullo”.

Il gen. Lanz si disse d’accordo circa l’impiego dei reparti italiani in difesa costiera come in atto fino alla sostituzione e circa il successivo rimpatrio dell’armata a cura dell’organizzazione tedesca. Dopo una serrata ma cordiale discussione sull’entità del materiale da portarsi al seguito, venne redatta la bozza d’accordo riportata in allegato 3[31]. Il gen. Lanz si recava a riferire promettendomi – a mia richiesta – che avrebbe dato ordine di riallacciare i collegamenti del comando d’armata, i quali nella serata inoltrata erano stati tagliati.

Questo riallacciamento non era ancora avvenuto quando, alle ore 4 del 9 settembre, tornò il gen. Lanz per annunciarmi che, nonostante le sue più calde insistenze, l’O.K.W. (comando supremo tedesco) non aveva ratificato l’accordo, da lui definito, e giustamente, il migliore che in quelle circostanze si potesse mettere insieme; che restava fermo il trasporto dell’armata in Italia, ma in condizioni di pieno disarmo, salvo la pistola per gli ufficiali; che egli doveva perciò con suo grande dolore invitarmi a dare gli ordini relativi.

Il mio primo istinto fu, naturalmente, di rifiutarmi a tale inaudita pretesa. Protestai violentemente contro questo trattamento che ci si voleva infliggere nonostante l’iniziativa “cavalleresca e leale” (erano parole dello stesso gen. Lanz) spontaneamente da me assunta e ripresi a discutere sulla possibilità di attenerci alla bozza da noi insieme progettata, fino a che il Lanz mi disse francamente di non poter derogare dall’ordine dell’O.K.W. e che se lo avesse fatto, io mi sarei visto comparire davanti un altro generale che avrebbe dovuto tenermi lo stesso suo linguaggio.

Uso ancora l’ultimo mezzo di persuasione, rappresentando come in condizioni di disarmo, anche progressivo, non potrei più in alcun modo rispondere della difesa costiera. Ma il gen. Lanz ne conviene senza alcuna esitazione: quel che preme, egli afferma, è la sicurezza delle truppe tedesche e l’evitare  che  tutto o parte dell’armamento italiano possa cadere in mano dei Greci oltre che degli Inglesi.

Rivedo in un momento la situazione già considerata a fondo in quelle durissime ore:

  • coi collegamenti tagliati e per la mancanza di un piano prestabilito non è possibile dare ordini per una resistenza organizzata;
  • l’ex alleato è nelle migliori condizioni – essendosi certo adeguatamente preparato ed in virtù dello schieramento in atto – per mettere in crisi immediata e totale (specie in Attica, Peloponneso, Etolia-Acarnania ed Epiro) comandi, collegamenti, magazzini; ed in pratica fu poi ciò proprio che fece;
  • le sue unità, mobili e potentemente armate, nonché sorrette da una intera squadra aerea, mentre la nostra scarsa aviazione era rimasta paralizzata nei campi (o comunque avrebbe dovuto allontanarsi come da ordini superiori, non potuti eseguire data l’ora tarda) avrebbero avuto facilmente ragione dei nostri reparti molto dislocati, poco dotati, abbandonati a se stessi; delle loro debolezze gli aggressori erano minutamente e precisamente informati;
  • sui Greci (salvo casi sporadici ed essendo mancata la possibilità di una preparazione specifica) non si poteva fare alcun serio affidamento; avrebbero certo gradito le nostre armi, non certo le nostre bocche; e la massa non ci aveva mai perdonato l’aggressione del 1940; (*)

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(*)Questa valutazione ha trovato conferma nei fatti seguenti:

    • il gen. Maggiani, comandante della div. Casale, mi riferì a Schokken che un ufficiale inglese di collegamento coi ribelli greci gli avrebbe offerto di passare dalla loro parte; alla risposta del generale che egli avrebbe potuto passare colla sua intera divisione, l’inglese ritirò l’offerta;
    • il vicecomandante della Pinerolo, gen. Del Giudice, mi riferì pure a Schokken che, essendo passato colla frazione meridionale della divisione, per ordine del suo divisionario, dalla parte dei ribelli, questi intesero a loro modo tale accostamento degli Italiani: disarmandoli, spogliandoli e massacrandoli, tanto che il generale dovette chiedere assistenza ai Tedeschi, cui finì con l’aderire.

 

  • se la popolazione greca (quella ateniese in particolare), che era in attesa di uno sbarco inglese sempre prospettato come imminente dalla propaganda di Radio Londra (mentre il comandante d’Armata doveva escluderlo – come detto – dato il tenore del “Promemoria N. 2”), fosse passata, in un bollore di entusiasmo, a moti rivoluzionari approfittando di un conflitto tra Tedeschi e Italiani, avrebbe pagato assai caro tale suo atto impulsivo, data la congiunta debolezza organica e logistica che avrebbe impedito di conferirgli consistenza e durata. Nessuno avrebbe – in particolare – risparmiato alla Capitale greca un massiccio bombardamento;[32]
  • da nessuna parte si potevano sperare aiuti; lo stesso tenore delle direttive ricevute parlava implicitamente assai chiaro al riguardo;
  • si sarebbe avuta una serie di eroiche, ma slegate, resistenze della durata massima, là dove possibile, di una o due settimane. Risultati pratici: massacri, catture con trattamento da ribelli, sbandamenti coi necessari corollari (per ragioni di sussistenza) del brigantaggio o dell’accattonaggio, in paese miserabile ed ostile. Quest’ultimo fenomeno era particolarmente incombente sui pesi morti di cui l’armata (che era di occupazione) era gravata; pesi morti rappresentati da alcune migliaia di inermi concentrati nelle basi, perché in arrivo od in partenza, appartenenti, oltre che all’armata, alle truppe dell’Egeo; malarici, raccolti nei convalescenziari; addetti ai vari stabilimenti, magazzini, lavori, aziende agrarie, trasporti, reparti in addestramento presso unità tedesche; Carabinieri e Guardie di Finanza disseminati nelle stazioni territoriali ecc.;
  • il compito operativo dell’armata era venuto ad esaurirsi con l’armistizio;
  • la direttiva conclusiva mi chiedeva di salvare l’armata prevenendo mediante accordi l’aggressione tedesca; in caso contrario non sarebbe restata altra alternativa che una disperata resistenza con le caratteristiche e coi risultati pratici già prospettati;
  • l’armata avrebbe potuto fare ancora qualcosa di utile in Patria.

Mi si profilava una decisione tremenda, in violento contrasto col mio istinto, con la mia costruzione mentale, coi miei sentimenti; ma alla mia responsabilità di capo e di padre dei miei soldati ne apparve imperiosa la ineluttabilità.

Cercai allora di salvaguardare l’onore dei miei uomini e posi a condizione della mia accettazione che fosse lasciato alle truppe l’armamento individuale, in riconoscimento del valore col quale si erano sempre battute. E l’ottenni.

Sì stabilisce che i rispettivi plenipotenziari (per l’armata ten.col. di S.M. Scoti, ufficiale molto capace e molto apprezzato dai Tedeschi) concordino le modalità esecutive.

Circa alle ore 7 mi viene comunicato che il gen. Lanz, ritenendo ormai concluso l’accordo, intende fare iniziare alle ore 10 la raccolta dell’armamento collettivo. Gli faccio dire che io intendevo emanare gli ordini dopo concluso il lavoro dei nostri rappresentanti e che d’altra parte la diramazione degli ordini (specie coi collegamenti tagliati) richiedeva tempo. Mi si risponde di valermi dei collegamenti tedeschi e che il gen. Lanz non può ritardare l’inizio del ritiro dell’armamento oltre le ore 12.

Nuovo tormento. Ma mi convinco che se voglio salvare la mia armata occorre adeguarmi; e diramo il telegramma in Allegato 4[33], di cui mando copia al mio ex capo di S.M. tedesco, diventato capo di S.M di un nuovo gruppo operativo germanico, in sostituzione dell’11ᵃ  armata.

Successivamente i due delegati  concludono gli accordi che sono riassunti in un verbale a firma del delegato tedesco col. von Bogen, capo di S.M. del Comando Grecia, di cui allego copia fotografica (allegato 5)[34].

Il gen. Helmuth Felmy
Il gen. Helmuth Felmy

Successivamente prendo visione dei telegrammi giunti in mattinata da cui mi risulta che il comandante del XXVI° Corpo d’Armata (ritengo per il solo settore di Janina) e quello della divisione Piemonte hanno aderito per proprio conto alla richiesta tedesca di cedere le armi; do ordine, estendendolo più tardi alla divisione Cagliari, che si facciano restituire i fucili – conforme all’accordo – ai reparti che li avevano lasciati. Mi è poi risultato che la cessione da parte delle truppe del Peloponneso (divisioni Piemonte e Cagliari) era avvenuta dietro invito diretto del loro comandante di Corpo d’Armata, gen. tedesco Felmy[35], il quale aveva posto loro lo stesso dilemma presentato a me dal gen. von Gyldenfeldt, completandone il secondo corno con la promessa di un rimpatrio onorevole, simbolizzato dall’arma individuale lasciata agli ufficiali (Allegato 6)[36].

Il gen. Vittorio Ambrosio, capo di S.M Generale
Il gen. Vittorio Ambrosio, capo di S.M Generale

Ricevo anche un telegramma a firma Ambrosio[37] portante l’indicazione “per la Grecia inviati ordini a parte”. Interpreto trattarsi del documento portatomi dal gen. Gandini. Durante la mia detenzione in Italia son venuto più tardi a sapere che invece più recenti ordini avrebbe dovuto recarmi il gen. Giglioli[38], ordini che tuttora ignoro[39].

Verso le ore 11 del giorno 9 tengo un rapporto del Presidio di Atene nel quale faccio la storia dei negoziati; sottolineo – in relazione all’invito alla secessione – il mio fermo proposito di non venir mai meno al mio giuramento e concludo con l’esortazione per tutti a sopportare stoicamente e dignitosamente, sopratutto di fronte agli stranieri, la immeritata sventura toccataci, pronti a riprendere appena possibile, con immutato cuore ed a testa alta, il servizio della Patria e del Re.

Tali concetti riesprimo in un telegramma circolare alle truppe, che viene in primo tempo trasmesso, per errore del mio comando, al Comando Supremo, a seguito del mio rapporto telegrafico sugli accordi conclusi. L’uno e l’altro telegramma sono compilati in modo di non dar luogo a rimostranze, o peggio a rappresaglie, dell’ex alleato nel caso non improbabile di decrittazione. Il centro radio di Roma risponde che il destinatario è irreperibile.[40]

Emano una circolare contenente disposizioni esecutive analoghe a quelle contenute nel verbale Scoti – von Bogen, completate con prescrizioni di dettaglio tra cui quella che per ogni divisione partano col primo scaglione il vice comandante, con l’ultimo il comandante della divisione; i comandanti di Corpo d’Armata in coda alle loro truppe (con l’ultimo scaglione sarebbe partito il comandante dell’armata[41]). Tale circolare mi ripromettevo di personalmente commentare in un rapporto dei capi di S.M. di grandi unità che, col consenso del comando tedesco, avevo indetto per il giorno 13; ma all’ultimo momento mi fu detto che la riunione non era più possibile “per ragioni tecniche” dato che alcuni comandi erano già in movimento. Anche la diramazione della circolare incontrò ostacoli, in quanto i Tedeschi pretendevano che essa fosse superflua dato che essi si erano assunto il compito del trasporto dell’armata che eseguivano attenendosi al verbale Scoti – von Bogen, nel quale era stato tenuto ampio conto delle richieste del comando d’armata.

Il gen. Hartwig von Ludwiger
Il gen. Hartwig von Ludwiger

Nel pomeriggio del giorno 9 comunico personalmente gli ordini al capo di S.M. dell’ VIII° Corpo d’Armata parlando al telefono col gen. Ludwiger[42]; non essendo consentito sulla linea tedesca parlare italiano. Il giorno 10 settembre si inizia il trasporto dell’armata. Destino come primo scaglione il 3° reggimento Granatieri, bellissimo, perché desidero che in Italia si abbia subito l’impressione che dalla Grecia arriva una bella armata, anche se per una triste fatalità sia dovuta passare per le Forche Caudine del disarmo.

Costituisco un ufficio trasporti (ten. col. Zucchi) ed un ufficio incidenti (col. di S.M. Amatucci) mentre l’ufficio operazioni (ten. col. Scoti) e l’intendenza (gen. Calendi) cooperano con il gen. von Gyldenfeldt per l’esecuzione il più possibile regolare delle varie operazioni. I reparti partivano completamente inquadrati; ad ogni gruppo treni giornaliero era preposto un generale da me designato con funzione di comandante di scaglione.

Il giorno 10 od 11, dolorosa sorpresa. Il comando tedesco mi comunica che a causa della costatazione che parecchi soldati italiani avevano venduto il loro fucile ai Greci e che l’estendersi di tale fenomeno avrebbe in definitiva reso problematico lo stesso trasporto dell’armata aumentando l’efficienza delle bande, disponeva per il ritiro dei fucili e mi pregava di dare analoghi ordini per la zona di Atene; alla sicurezza delle truppe italiane avrebbero provveduto i comandi tedeschi. Data la situazione e poiché alcuni fatti del genere erano effettivamente avvenuti, tantoché io stesso stavo ordinando che i fucili fossero tenuti in caserma e non più lasciati anche per la libera uscita (mentre a ciò molto tenevo fino ad allora perché di fronte ai Greci fosse chiara la situazione di libero compromesso coi tedeschi) dovetti adeguarmi. Ottenni un’eccezione per i Carabinieri.

Il giorno 12 – essendomi stato riferito che agenti di propaganda cercavano di indurre singoli militari italiani a passare senz’altro al servizio tedesco – feci scrivere al comando germanico che una tale attività – mentre era eminentemente pericolosa perché capace di determinare sfaldamenti anche verso le bande greche, pregiudicando quella coesione dell’armata che io cercavo ad ogni costo di tenere efficiente – era anche in contrasto coi patti intercorsi e quindi, ritenendola opera di agenti irresponsabili, pregavo di farla cessare. Da tale giorno davo personalmente ai comandanti di scaglione la direttiva di opporsi, durante il viaggio, allo sfaldamento in qualsiasi senso di loro reparti; e di fronte a un eventuale aut aut da parte dell’alleato rispondere che prima doveva essere da esso eseguito, come da noi esemplarmente per quanto dolorosamente fatto, l’accordo intercorso. Giunti in Patria, in piena libertà ed in pieno orientamento, ciascuno avrebbe potuto prendere, occorrendo, quella determinazione che la propria coscienza gli avrebbe imposto.

Scrissi anche in quel giorno al comando tedesco di consentire che il gen. Boncompagni, mio comandante del Genio, potesse precedere l’armata in aereo per prendere ordini dalle competenti autorità italiane. Mi fu risposto che ciò non era necessario in quanto l’arrivo di ogni scaglione sarebbe stato segnalato dal Comando Supremo tedesco, solo a ciò competente, ai corrispondenti comandi in Italia.

Circa l’adempimento del patto da parte tedesca, mi giungevano notizie e sintomi contraddittori. Già nella lettera circa il ritiro dei fucili, era contenuta una frase alludente al contegno dei più alti comandi in Italia “che poneva in forse la precedente collaborazione”. Mi veniva poi riferito che il servizio di propaganda tedesco biasimava il proprio comando per il fatto che, sentendosi obbligato dalla parola data, intendeva eseguire lealmente il patto convenuto con l’armata. Nell’ufficio operazioni del comando tedesco era stato visto uno schizzo che indicava la regione di Trieste come zona di raccolta dell’armata, mentre dall’ufficio movimento delle ferrovie in Atene i trasporti risultavano avviati su Belgrado e Zagabria. Il gen. von Gyldenfeldt, al gen. Gandini, il quale per mio incarico intercedeva presso di lui perché venisse mitigato il trattamento inflitto a un trasporto di truppe italiane giunto dal Dodecaneso (sebbene da me non dipendenti), dichiarava che, trattandosi di reparti schieratisi contro i Tedeschi, spettava loro il trattamento di veri e propri prigionieri di guerra, ben diverso da quello spettante all’armata; che – in premio del suo leale comportamento – sarebbe stata ricondotta “libera in Italia”.

Il 16 settembre, il console Prato, reggente della Rappresentanza diplomatica, mi riferiva di aver ricevuto dal suo collega tedesco l’assicurazione che l’O.K.W., “enchanté” della lealtà con la quale il comando d’armata eseguiva l’accordo, riaffermava l’impegno di condurre a termine con pari lealtà il rimpatrio dell’armata stessa.[43]

Tenevo ansiosamente dietro a tutti questi ed analoghi sintomi, e nell’impossibilità di oppormi con mezzi materiali ad un’eventuale inadempienza dell’ex alleato, avevo dato incarico al ten. col. Scoti di provvedere in tal caso a far lanciare, per mezzo di suoi conoscenti greci, un messaggio radio con l’annuncio di simile inaudito atto della malafede tedesca; con ciò mi ripromettevo di determinare, per tale evenienza, in Italia, un’esplosione di furore antitedesco, che rendesse impossibile ogni collaborazione anche da parte degli eventuali simpatizzanti. Era tutto quello che in simili circostanze si sarebbe potuto fare. Frattanto conveniva mantenere inalterato un contegno di dignitosa, perfetta lealtà.

Il gen. Antonio Gandin
Il gen. Antonio Gandin

Il giorno 10 mi pervenne un telegramma incompleto del gen. Gandin, comandante della divisione Acqui che presidiava Cefalonia, nel quale egli mi chiedeva conferma dell’ordine contenuto nel telegramma all. 4[44]. Quasi contemporaneamente il comando tedesco mi faceva analoga richiesta. Ebbi in primo tempo l’idea di adoperare una formula dalla quale il generale capisse che nell’interesse dell’armata non poteva derogare parzialmente dagli accordi presi, ma dovetti scartarla per non dare sospetto ai Tedeschi e telegrafai semplicemente “Confermo”. Ad analoga richiesta tedesca dovetti confermare lo stesso ordine al comando  XXVI° Corpo d’Armata per il presidio di Corfù.

Il mio punto di vista in proposito era ed è il seguente: io avevo dovuto provvedere per la massa dell’armata, col pensiero in particolare ai più compromessi che erano la maggior parte; evitare il caos e coprire la responsabilità dei miei dipendenti. Naturalmente vedevo volentieri singole reazioni purché capaci, per aiuti probabili o per favorevoli condizioni ambientali, di procurare la salvezza delle truppe interessate o di gran parte di esse, od anche soltanto per ragioni morali a patto di non determinare troppo gravi inutili sacrifici: insomma questione di proporzioni tra sacrifici e risultati, a giudizio dei singoli comandanti.

A questa stregua mi regolai per Zante.

Il comandante di quell’isola, gen. Paderni, mi inviò il 13 settembre – per mezzo di un aereo pilotato da un ufficiale tedesco – un sottotenente latore di un piego di contenuto banale. Ma l’ufficiale mi chiese, a quattr’occhi, se io non avrei approvato che quel presidio, il quale aveva ceduto le artiglierie ma in forza di fanteria era superiore alle truppe tedesche dell’isola, attaccasse queste ultime. Gli risposi, e gli confermai alla presenza del gen. Gandini, che trovavo lodevolissimo quello slancio, ma che quale comandante dell’armata non potevo autorizzarlo per non compromettere, con un atto che non sarebbe sfuggito all’ex alleato facendomi apparire fedifrago e fornendogli un motivo per annullare gli accordi intervenuti, le sorti dell’armata intera. Al gen. Paderni, quando mi raggiunse a Schokken[45], dissi che queste cose si fanno, quando si può, ma non si chiedono.

Il giorno 12 o 13 settembre il comando III° Corpo d’Armata mi segnalava che il reggimento Lancieri di Aosta, asserragliato in Trikkala[46], era assediato dai ribelli e che occorreva portargli aiuto. Riferiva che in primo tempo un battaglione della Pinerolo, partito in suo soccorso da Larissa[47], aveva fallito allo scopo e che il comandante della divisione, gen. Infante, era scomparso mentre assisteva al combattimento; non si sapeva se catturato o passato ai ribelli; che il vicecomandante, gen. Del Giudice, accorso da Volo[48] a Larissa per assumere il comando della divisione, era stato fucilato dai ribelli; quest’ultima notizia mi risultò più tardi insussistente.

Chiesi allora aiuto al comandante tedesco, il quale qualche giorno dopo mi comunicò che le truppe inviate in soccorso avevano trovato Trikkala sgombra: sembrava che il reggimento fosse passato ai ribelli.

I trasporti intanto si svolgevano, certamente per Atene ed altrove secondo mi riferiva il comando tedesco, con tutta la regolarità conseguibile in quelle circostanze.

Il giorno 17 feci interessare il gen. von Gyldenfeldt perché provvedesse a far ridare l’inquadramento completo a taluni reparti provenienti dal Peloponneso che mi risultavano poco in ordine. Il generale si mostrò irritato di questa mia osservazione e chiese al col. Amatucci[49] come facessi ad essere al corrente di tanti particolari.

Il giorno 18 il ten. col. Scoti è chiamato a conferire dal gen. Gyldenfeldt il quale gli dichiara che il comandante delle truppe italiane di Creta, gen. Carta, contrariamente alla parola data, ha tentato di scappare con un motoscafo che è stato mitragliato e forse affondato; in conseguenza l’O.K.W. ha ordinato di mettere al sicuro tutti i comandanti italiani. Gli consegna delle lettere per me con le quali mi si mette “sotto la protezione delle forze armate tedesche” invitandomi a tenermi pronto a partire, insieme col mio capo di S.M., due aiutanti ed un attendente, l’indomani mattina per Belgrado usufruendo dell’aereo personale del gen. Loehr da lui messo cortesemente a mia disposizione. Quasi contemporaneamente al recapito di dette lettere, una compagnia tedesca occupava il comando d’armata, mentre il gen. Gandini ed io rimanevamo guardati a vista da un ufficiale ciascuno, che doveva scortarci fino a Belgrado.

Alla partenza dal campo di Tatoi[50], nel mattino del 19, si trovò il gen. von Gyldenfeldt, il quale mi ripeté le stesse cose dette al ten. col. Scoti in risposta alle mie rimostranze per l’ingiusto sospetto che con tale trattamento si faceva gravare su di me, mentre egli, che ben mi conosceva, doveva sapere come mai mi sarebbe passato per la mente di lasciare la Grecia altrimenti che con l’ultimo scaglione della mia armata, come era mio inderogabile dovere. Gli soggiungevo che avevo rifiutato un’offerta fattami in proposito in quei giorni. A sua volta mi dichiarava che la misura era di carattere generale e non riguardava particolarmente me, di cui nessuno dubitava, che da Belgrado avrei potuto assistere al movimento ferroviario dell’armata. Questo avrebbe continuato a svolgersi – come di fatto avvenne – con la collaborazione degli uffici del comando d’armata e particolarmente dell’intendente gen. Calendi e del capo ufficio operazioni ten. col. Scoti; i due ufficiali restarono effettivamente in funzione fino a metà ottobre e furono poi anch’essi internati.

Giunto nel pomeriggio del 19 a Belgrado, mi vidi con mia estrema e non certo lieta sorpresa, aggregato ad un trasporto di generali fatti prigionieri a Rodi e spedito sotto scorta della polizia a Schokken.

Giunsi colà nella convinzione di essere vittima di un equivoco; ma dovetti convincermi del contrario quando vidi colà giungere altri colleghi, sia dalla Balcania, sia dall’Italia. Per questo motivo e per il fatto che il sottufficiale del campo mi aveva accennato che un mio eventuale esposto sarebbe stato sottoposto alle decisioni del sedicente governo repubblicano[51], mi astenni dal fare rimostranze ufficiali fino al giorno in cui venni a sapere che le truppe le quali in Italia non avevano fatto atti di ostilità contro i Tedeschi erano state congedate. Presentai allora un esposto volto ad ottenere lo stesso trattamento alle mie truppe, che mi risultavano ormaiinternate in vari campi della Germania, anziché rimpatriate. Sollecitavo una decisione con altro esposto in data 15 novembre (allegato 7)[52]. Non so se a indiretta risposta di detto esposto, pervenne al campo una comunicazione dichiarante che tutti i patti locali conclusi tra comandi italiani e tedeschi al momento dell’armistizio erano da considerarsi sorpassati dalla decisione dell’O.K.W. di disarmare e di internare tutti i reparti che non avevano accettato di passare coi tedeschi.

Una protesta collettiva di tutti i comandanti d’armata internati a Schokken, contro tale arbitraria ed unilaterale interpretazione dei patti, non ottenne alcun risultato.

Verso la fine di settembre venne a Schokken un rappresentante del Fascio di Posen[53], col compito di indurci a collaborare coi Tedeschi. Alcuni generali presero la parola. Io esposi la vicenda mia e della mia armata invitando alla fine l’imbonitore a giudicare lui stesso se dopo ciò potevamo affiancarci “a quella gente”. Un “no” formidabile fu la risposta unanime di ufficiali e soldati; e l’imbonitore se ne tornò scornato. Il comandante del campo dovette rinunciare per quella volta a far la nota degli aderenti.

Il 22 gennaio ’44 fui chiamato dal comandante del campo, col quale ebbi la seguente conversazione:

  • Debbo parlarle di cose da cui dipenderà il suo avvenire. Mi viene ordinato dall’alto di chiederle se aderisce al nuovo stato di cose in Italia.
  • No.
  • Ho ordine di non fare pressioni su di lei. D’altra parte, come vecchio ufficiale tedesco, posso capire le sue risposte. Se dice no, significa che vuol rimanere fedele al suo Re, se dice sì….
  • Capisco perfettamente. Io voglio restare fedele al mio giuramento.
  • Non conosco lo scopo della richiesta, ma ritengo (ich vermute) che si tratti di un impiego; ritengo che intendano darle il comando di un’armata.
  • (mi stringo nelle spalle).
  • Allora, che cosa debbo riferire?
  • Quanto ho già detto: che tengo fede al mio giuramento.

Analoga richiesta veniva fatta separatamente agli Ammiragli Campioni, Mascherpa e Zannoni.

Il carcere degli Scalzi a Verona
Il carcere degli Scalzi a Verona

Il 24 venivamo insieme trasportati a Thorn, da dove, coi gen. Gariboldi e Rosi, che ivi si trovavano, venivamo scortati a Verona e imprigionati in quelle Carceri Giudiziarie a disposizione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

A richiesta del giudice istruttore, gli rimisi in giugno il memoriale (allegato 8)[54], compilato nella giornata stessa dell’inter-rogatorio. Nella redazione di esso mi ispirai ai seguenti criteri:

  • mantenermi obbiettivo, sicché ne scaturisse da sé la malafede germanica; e il memoriale potesse restare come cronistoria dei fatti nel caso di mia soppressione;
  • negare di aver ricevuto qualsiasi istruzione dal Comando Supremo, affinché i Repubblicani non potessero avvalersene per la loro propaganda;
  • far figurare quindi il mio atteggiamento come esclusivamente dovuto a personale iniziativa.

Al processo di Brescia[55], il Presidente mi disse che tale mia iniziativa non appariva chiara a lui “e non a lui solo”. Mantenni ovviamente la mia riserva, riuscendo a sviare l’interrogatorio da quel punto.

Fui condannato a 10 anni di reclusione, con motivazione che ritengo conforme a quella risultante dal comunicato Stefani[56] (allegato 9)[57] e con decorrenza dal mio arresto “avvenuto in Atene il 18 settembre 1943”.

Il 25 aprile fui liberato insieme ad altri detenuti politici per opera del C.L.N. di Brescia.

Insieme al gen. Gariboldi mi unii alla compagnia “Fiamme Verdi” di “Bruno” [58]e con marcia notturna ci internammo nelle Prealpi Bresciane. Colla stessa compagnia ridiscendemmo nella giornata del 26, secondo gli ordini superiori, avvicinandoci a Brescia ove entrammo nelle ore antimeridiane del 27 diretti al Castello, sul quale avemmo la soddisfazione di fare issare la Bandiera Nazionale.[59]

CONCLUSIONE

Tenuto sempre completamente all’oscuro dell’esistenza di contrasti coi Tedeschi in Italia e della possibilità e imminenza di un armistizio separato; orientato all’ultimo momento verso una condotta di accordi, allo scopo di salvare l’armata prevenendo la sicura aggressione dell’ex alleato (nel qual caso non sarebbe rimasta altra alternativa che la disperata resistenza fino all’annientamento) ho seguito la linea di condotta indicatami la quale era parsa anche a me rispondente al criterio del minor danno. Essa avrebbe certamente comportato gravi sacrifici materiali e morali, ma avrebbe risparmiato un inutile sterminio.

Per gradi successivi, i sacrifici sono venuti aggravandosi, ma il limite finale cui l’accordo conclusivo si informava – rimpatrio con l’armamento individuale – era onorevole; salvava la compagine dell’armata e ne consentiva un eventuale reimpiego in Patria, se non altro per l’ordine pubblico.

L’ex alleato violò cinicamente il patto. Alla violazione, che si iniziò con la mia cattura e deportazione, non eravi possibilità di resistere.

Come seppi in novembre dal gen. Calendi, non fu nemmeno possibile lanciare per radio la notizia di tale violazione.

Ben altrimenti sarebbero forse andate le cose se io, tempestivamente orientato, avessi potuto crearmi forti pegni da tenere in mano fino all’esecuzione almeno parziale degli accordi (probabilmente migliori) che avrei potuto concludere. Meglio ancora se mi si fosse potuto concedere modo e tempo per realizzare quella riunione delle unità italiane alla quale, pur nella nuova situazione e compatibilmente con essa, non avevo cessato di aspirare.

Al mancamento dell’ex alleato non fu certo estraneo il clima decisamente antitedesco subito creatosi nelle sfere ufficiali in Italia. Ma se questa era la direttiva in Patria, perché indicarmi una condotta di compromessi che – a mia completa insaputa – era condannata a priori?

A tale quesito, non io, ma la mia armata sacrificata attende risposta.

Personalmente, sono convinto di aver fatto tutto e più del mio dovere. Abbandonato ad una tragica sorte, con orientamento e direttive per lo meno inadeguate, ho sacrificato ogni mia personale suscettibilità od aspirazione per la salvezza dei miei soldati; mi sono poi sempre mantenuto, ed ho cercato di mantenere tutti accanto a me, sulla via della dignità e della fedeltà.

IL GENERALE DESIGNATO D’ARMATA

Carlo Vecchiarelli

___________________________

[1]Incarico conferitogli nel gennaio 1942 e ricoperto sino al 3 maggio 1943.

[2]Regione della Grecia occidentale posta di fronte all’isola di Cefalonia.

[3]Corfù, Cefalonia e Zante.

[4]La regione costiera circostante Atene e, rispettivamente, quella posta immediatamente a nord di essa.

[5]Altra possibile grafia per il nome Löhr. Il gen. Alexander Löhr al termine della guerra, nel 1945, sarebbe stato catturato dai partigiani jugoslavi, processato a Belgrado e fucilato nel 1947.

[6]Antico nome del Peloponneso, qui utilizzato quale sinonimo.

[7]Il gen. Ezio Rosi (1881 – 1963) era stato inviato nel 1943 a capo di tale Gruppo d’Armate, che copriva il Montenegro, l’Albania, la Grecia e le Isole Jonie

[8]La capitale dell’Albania era stata occupata dagli italiani sin dal 1939.

[9]Il gen. Cesare Gandini, Capo di S.M. dell’Armata, e quindi il più stretto collaboratore del gen. Vecchiarelli, così scriveva nella propria Relazione al termine del conflitto: “La notizia mi preoccupò profondamente tanto che nel minutare personalmente una lettera in materia al Comando Gruppo Armate dell’Est usai la espressione “che il provvedimento sarebbe stato accolto con senso di inesprimibile angoscia” e tale frase rimase, approvata dal Comandante dell’Armata” (Gandini C., Alla commissione per l’esame del comportamento degli ufficiali generali e colonnelli, Novembre 1945, AUSSME DS 2128/A/1/2, p. 2)

[10] Località a circa 8 km dal centro di Atene, ove sorgeva un antico porto.

[11]Il Feldmaresciallo Maximilian von Weichs in luglio era stato nominato Comandante del Gruppo armate F, di stanza in Grecia e Jugoslavia.

[12]Si tratta della Operazione “Achse”, studiata dai tedeschi subito dopo il 25 luglio 1943 per controbattere l’eventuale uscita dell’Italia dall’alleanza, attaccando le truppe italiane, disarmandole e internandole nei campi di prigionia. Ovviamente il gen. Vecchiarelli non poteva, tuttavia, all’epoca conoscere i dettagli e l’estensione di tale piano.

[13]Vedi Allegati alla Relazione

[14]Da quanto precede, è chiaro come tale direttiva fosse incredibilmente impartita nel mese di agosto 1943, malgrado che il Governo Badoglio risultasse già attivamente impegnato nelle azioni tendenti a richiedere l’armistizio agli Angloamericani (richiesta formalizzata il 16 agosto a Lisbona dal gen. Castellano, che il 3 settembre ne sarebbe stato il materiale firmatario). Ciò con il deliberato intento di Badoglio di tenere i Comandanti impegnati sui vari fronti all’oscuro di quanto andava maturando, per i discutibili motivi esposti in un successivo capitolo.

[15]Btg. = Battaglione, unità militare di circa 600 – 1000 soldati facente parte di un Reggimento, a sua volta appartenente a una Divisione, inquadrata in un Corpo d’Armata. Il Battaglione era allora qualificato come “da fortezza” o “da campagna” in base al suo impiego e quindi alle sue dotazioni.

[16]Così nella memoria del 1946 “Italiani e tedeschi in Grecia”: “ Il Comando di gr. d’A. di Salonicco aveva infatti ordinato in agosto, che in ogni località di stazionamento di truppe si prendessero ostaggi, da impiccare o fucilare ove fosse stata fatta offesa ai militari dell’Asse; il Comandante dell’armata (lo stesso gen. Vecchiarelli, ndc.) rifiutò di eseguire l’ordine e ne riferì a Roma.”

[17]Si tratta del già citato gen. Cesare Gandini, che nella sua Relazione così si esprime: “Verso la metà di agosto ricevetti notizia di una grave sciagura familiare, la morte del mio unico fratello che lasciava, fra l’altro, privo di appoggio in un piccolo paese, mio padre più che ottantenne. Non chiesi licenza: fu il cuore generoso del Comandante, generale Vecchiarelli, che insisté perché con un rapido viaggio in Italia potessi sistemare le cose più urgenti schiantate da tanta sciagura” (Gandini C., Op. cit., p.4)

[18]Ci si riferisce allo sbarco alleato in Sicilia il 9 luglio 1943, culminato il 17 luglio con la conquista dell’intera isola, e di quello in Calabria, avvenuto il 3 agosto. In un’ottica di “combattere fino alla fine con l’attuale alleato” – come formalmente ordinato dal Comando Supremo – tali operazioni non potevano quindi che essere definite “disgraziate”.

[19]Località della Grecia centro-orientale.

[20]Mentre il gen. Castellano si recava a Lisbona per trattare l’armistizio, gli Stati Maggiori italiano e tedesco si incontravano a Bologna per esaminare un piano comune di difesa della penisola dagli angloamericani!

[21]Si tratta del già citato “Promemoria N. 2”, al quale il gen. Vecchiarelli farà ampio riferimento nel seguito quale base per le sue decisioni.

[22]In realtà il gen. Vecchiarelli, evidentemente spinto dagli eventi e dalle mutate circostanze, successivamente ne specificherà i contenuti nell’Appendice alla Relazione.

[23]Tale “sconcordanza” verrà esplicitata dal gen. Vecchiarelli nell’Appendice alla Relazione.

[24]La Reuters era ed è tuttora una delle principali Agenzie di stampa britanniche.

[25] Il magg. gen. Heinz von Gyldenfeldt dopo gli avvenimenti qui narrati avrebbe proseguito la sua carriera nell’ambito dello S.M. tedesco. Fatto prigioniero nel 1945, fu poi rilasciato nel 1947.

[26] Il ten. col. Alberto Scoti era il Capo ufficio operazioni dell’Armata

[27]La posizione rappresentata dal gen. Vecchiarelli al suo interlocutore era quindi quella contenuta nel Promemoria N. 2, pur senza ovviamente rivelargliene l’esistenza.

[28]Vedi Allegati alla Relazione

[29]Un sintetico verbale della discussione venne compilato da uno degli uffciali presenti, il cap. Salvioli Mariani, e conferma quanto sin qui esposto dal gen. Vecchiarelli.

[30] Il gen. Hubert Lanz al termine della guerra, nel 1948, sarebbe stato processato a Norimberga per aver disposto la fucilazione degli ufficiali italiani a Cefalonia e condannato a 12 anni di carcere; pena relativamente ridotta in quanto l’ordine originario impartito da Hitler era stato di uccidere tutti i militari italiani ivi dislocati, e solo dietro le insistenze di Lanz la fucilazione avvenne, per l’appunto, solo per gli ufficiali.

[31]Vedi Allegati alla Relazione

[32]Questo paragrafo della Relazione, di cui esiste l’originale manoscritto (vedi pag. successiva) e la relativa indicazione della collocazione nel testo, non venne tuttavia incluso dal gen. Vecchiarelli nel testo ufficiale della Relazione stessa.

[33]Vedi Allegati alla Relazione

[34] Vedi Allegati alla Relazione

[35] Il gen. Helmuth Felmy era a capo del XLVIII Corpo d’Armata e riportava, almeno teoricamente, al gen. Vecchiarelli, del quale si guardò bene, ovviamente, di rispettare le disposizioni. Al termine della guerra, nel 1948, sarebbe stato condannato a Norimberga a 15 anni di carcere per le rappresaglie da lui compiute nei confronti di innumerevoli cittadini greci.

[36]Allegati alla Relazione

[37] Si tratta dell’Ordine N. 24202/Op. dell’8 settembre 1943

[38] Il gen. Emilio Giglioli era il capo di S.M. del gen. Rosi.

[39]V. al proposito quanto specificato dal gen. Vecchiarelli nell’Appendice alla Relazione.

[40]A seguito dell’armistizio il Comando Supremo si stava spostando a Brindisi, dove tuttavia avrebbe ricominciato a operare solo l’11 settembre.

[41]Ossia lo stesso gen. Vecchiarelli

[42] Il gen. Hartwig von Ludwiger comandava la 104ª Divisione Cacciatori tedesca, posta alle dipendenze dell’VIII° Corpo d’Armata italiano.

[43] Eugenio Prato era Primo segretario presso la Regia Rappresentanza italiana ad Atene, della quale era responsabile data l’assenza del Ministro plenipotenziario Pellegrino Ghigi, che ne era a capo. Era, dunque, il diplomatico più alto in grado presente ad Atene.

[44]Vedi Allegati alla Relazione

[45] A Schocken (oggi Skoki, località polacca nei pressi di Poznan) si trovava un campo di internamento tedesco (Oflag = Offiziers-lager, campo di prigionia per ufficiali) nel quale venne concentrato un elevato numero di alti ufficiali italiani, tra i quali il gen. Vecchiarelli.

[46]Oggi Trikala, città della Tessaglia, nella Grecia centrale.

[47]Città a circa 100 km da Trikala.

[48]Oggi Volos, città costiera nella stessa regione.

[49]Il già menzionato capo dell’ufficio incidenti.

[50]Campo di aviazione vicino ad Atene.

[51]Ci si riferisce ovviamente al Governo della R.S.I.

[52]Vedi Allegati alla Relazione

[53]Nome tedesco per Poznan, importante città della Polonia centro-occidentale.

[54]Vedi Allegati alla Relazione

[55]Il deferimento al tribunale della R.S.I.  porta la data del 28 gennaio 1944.

[56]Agenzia di stampa controllata, in quel periodo, dal Governo della R.S.I.

[57]Vedi Allegati alla Relazione

[58]Il comando delle “Fiamme Verdi” era stato ufficialmente istituito a Cividate Camuno, paese della provincia bresciana situato sul fiume Oglio, a nord del lago d’Iseo. “Bruno” era il nome di battaglia di Giuseppe Gheda, che sin dal 1943 (a 18 anni) si era unito alle “Fiamme Verdi”, fu ferito in combattimento  e infine ucciso dai tedeschi il 19 aprile 1945, a pochi giorni dalla Liberazione.

[59]Il gen. Vecchiarelli ebbe successivamente modo di raccontare come riuscì in tale occasione ad issare la bandiera italiana battendo sul tempo altri partecipanti all’azione, che avrebbero invece voluto issarvi la bandiera rossa.