Allegato N. 8

alla Relazione sull’operato del comandante della XI armata in dipendenza ed a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943

 

[Memoria presentata dal gen. Vecchiarelli al tribunale della R.S.I. nel 1944 – v. nota 1]

 

L’8.IX.’43 mi trovavo in Atene al comando dell’11ª armata, da me assunto il 3.V.’43. Dal 28.VII.’43 l’armata aveva assunto il carattere di armata mista italo tedesca alla dipendenza operativa del Comando Gruppo armate E (gen. Loehr) residente a Salonicco. Da detto comando dipendevano (oltre l’11ª A.) le “truppe Salonicco Egeo”, la “Fortezza di Creta” ed un comando territoriale Grecia residente in Atene (gen. Speidel). Le truppe tedesche facenti parte dell’11ª A. dipendevano da detto comando solo operativamente; operativamente dipendeva dal comando tedesco “Fortezza di Creta” la divisione italiana Siena più LI brigata (gen. Carta) dipendente sotto l’aspetto disciplinare amministrativo dal comando 11ª A. Presso il comando 11ª A. esistevano due stati maggiori, quello normale italiano ed uno operativo tedesco (capo di S.M. gen. v. Gyldenfeldt, con funzioni anche di collegamento col comando gruppo armate E); aveva suoi organi di collegamento presso i C.di d’artiglieria, del genio e intendenza d’armata.

L’ordine di battaglia dell’11ª A. era il seguente:

III° C.A. (gen. Manzi, sede Tebe) rinforzato con la massima parte delle truppe d’armata, più 1 gruppo CC NN[2] e comprendente le divisioni Pinerolo (gen. Infante, sede Larissa) e Forlì (gen. Arena, sede Atene) in Tessaglia e Beozia Attica. Nel suo territorio risiedeva la 11ª divisione tedesca (gen. Drum, sede presso Atene) direttamente dipendente dal comando d’armata, più tre reggimenti motorizzati di polizia dipendenti dal C.do Salonicco Egeo.

VIII° C.A. (gen. Marghinotti, sede Agrinion) comprendente le divisioni Casale (gen. Maggiani, sede Missolungi) in Etolia Acarnania, Acqui più due btg. da fortezza tedeschi a Cefalonia (gen. Gandin), un gruppo di CC NN più la divisione tedesca 104 (gen. Ludwiger, sede Agrinion).

XXVI° C.A. (gen. Della Bona, s. Janina) comprendente la divisione Modena (gen. Papini, s. Arta) in Epiro, le truppe di Corfù (col. Lusignani, comandante 18° ftr.), un gruppo CC NN, un gruppo Alpini Valle, più la 1ᵃ div. tedesca da montagna (gen. v. Staetter, s. Janina)

LXVIII° C.A. (gen. ted. Felmy, s. Vityna), in Peloponneso, comprendente le divisioni Piemonte (gen. Torresan, s. Patrasso) nel Peloponneso settentrionale e Zante; Cagliari (gen. Angioy, s. Tripolis) nel Peloponneso meridionale, 117ª tedesca (gen. Le Suire, s. presso Tripolis) e 1ª corazzata tedesca (gen. Krueger, s. Xilokastron). Dal gen. Krueger dipendevano i settori di Corinto (gen. Mattioli) e Nauplia (gen. Caracciolo), composti di truppe prevalentemente tedesche il primo, quasi esclusivamente italiane il secondo. Il 68° C.A. era inoltre rinforzato da 7-8 btg. tedeschi da fortezza, di cui uno dislocato a Zante.

Le truppe italiane erano dislocate per la quasi totalità sulla costa, quelle del III° C.A. in notevole parte anche in guarnigioni capaci di darsi mutuo appoggio in funzione antiribelli e a protezione di un tratto della ferrovia Atene Salonicco.

L’armata disponeva di poche forze d’aviazione (col. Chiesa) ma poteva far affidamento sulla cooperazione di una squadra aerea tedesca (gen. Fiebig) che aveva preso stanza in Grecia ripiegando dall’Egeo e che aveva in pratica il monopolio degli aeroporti (con sezioni italiane e presidi o tedeschi o misti).

Analogamente per le poche forze di Marina facenti capo all’ammiraglio Lombardi residente a Patrasso (Morimorea) mentre risiedeva ad Atene un ammiraglio tedesco (Lange) avente il comando dell’Egeo e dal quale dipendevano il porto e la zona del Pireo; pel collegamento con le forze italiane disponeva di un capo dl S.M. italiano (cap. di vasc. Del Grande).

Le relazioni tra i comandi e le truppe dell‘armata mista, pur non mancando qualche leggero dissenso sporadico, furono sempre ottime. Particolarmente cordiali quelle intercedenti tra me ed il mio capo di S.M. tedesco, che era tenuto al corrente dl tutto e col quale io ho sempre usato parlar franco anche quando le nostre vedute, eccezionalmente in verità, non  coincidevano.

Nessun dissenso mai col gruppo armate; soltanto verso la fine d’agosto feci riserva di prendere ordini dal Comando Supremo italiano a proposito di talune prescrizioni pervenutemi circa il trattamento delle popolazioni del paese occupato non coincidenti con la pratica da noi seguita. L’armata aveva un settimanale “Radiofante” bilingue, redatto in collaborazione col servizio di propaganda tedesco.

Negli ultimi giorni di luglio (in coincidenza col cambiamento di Governo in Italia) il comando tedesco fece un esperimento di allarme in Atene. Per effetto di un ordine errato nel campo di aviazione di Kalamaky presso il Falero, gli avieri tedeschi assalirono improvvisamente e disarmarono la guardia alla sezione italiana. Un aviere che si oppose al disarmo fu ucciso. Pur chiedendo fermamente schiarimenti e soddisfazioni che ottenni entro una settimana, cercai poi di minimizzare l’incidente; decretai un encomio solenne all’aviere caduto, ma ne limitai la diramazione. In quei giorni avvennero qua e là piccoli incidenti, ma soprattutto a Creta, ove il gen. Carta al comandante tedesco che appariva sospettoso di una possibile defezione italiana, ebbe a dichiarare che se ciò fosse per dannata ipotesi avvenuto, egli da leale soldato avrebbe tenuto la difesa efficiente fino alla sostituzione con truppe tedesche; e di ciò gli diedi lode.

L’armata mista iniziò, come detto, il suo funzionamento col 28 luglio ed assunse ai primi d’agosto lo schieramento indicato, concertato  nelle linee generali fra i due Comandi Supremi. Esso era dal punto di vista operativo il più razionale in quanto dava compiti prevalentemente statici (salvo la partecipazione ai rastrellamenti antiribelli e pertanto prevalentemente sotto l’aspetto difesa delle coste) alle unità italiane, meno mobili e meno modernamente attrezzate, e il compito di manovra alle divisioni tedesche: le prime dislocate a larghe maglie lungo le coste, le seconde raccolte in seconda schiera. Tale situazione sarebbe stata per altro ovviamente delicatissima per le truppe italiane in caso di disaccordo fra alleati.  Tuttavia nessuna preoccupazione in proposito ebbe mai il comandante della armata per effetto sia del buon accordo che egli – nonostante il prologo poco felice e la propaganda greca intenta a seminare zizzania tra i due occupanti – era riuscito a stabilire ed a consolidare tra comandi e unità delle due nazionalità e nell’interno del suo proprio comando dove gli ufficiali lavoravano d’amore e d’accordo, né avveniva che alcuna disposizione addestrativa od operativa venisse presentata alla sua firma se non collaudata dal due S.M.;  sia soprattutto per la direttiva fornitagli dal Comando Supremo ai primi di agosto  “tenere ben fermo che noi combatteremo fino alla fine a fianco dell’alleato”. A tale formula egli aveva risposto “Applico direttiva ricevuta nella lettera e nello spirito”.

Il 1° settembre mi giunse una lettera del Comando Supremo in cui si affermava essere stato colà riferito che, in conseguenza del cambiamento di governo in Italia, lo spirito bellico dell’armata sarebbe stato in diminuzione, con tendenza ad accostarsi ai Greci. Vidi in questa lettera il riflesso del sopra accennato lavorio della propaganda greca e risposi in data 7.IX che nessun affievolimento di spirito combattivo ere conseguito dal cambiamento di Governo, in quanto – se qualche ripercussione c’era stata nei primi giorni – presto la situazione si era normalizzata per l’assidua opera di propaganda fatta in base ai noti proclami governativi che confermavano il proposito di combattere fino alla fine a fianco dell’alleato, nonché in conformità del principio stabilito dal comandante dell’armata: “doversi sacrificare ogni moto dell’animo riflettente le proprie tendenze politiche sull’Altare delle Patria, per dirigere ogni sforzo esclusivamente al raggiungimento della vittoria”. Obbiettivamente come sempre, soggiungevo che, innegabilmente, seguitavano a sussistere le note cause di disagio (che nei quattro mesi di mio comando ero riuscito a mitigare ma non ad eliminare) consistenti nello spinoso trinomio licenze-avvicendamenti (la massa non andava in licenza da trenta mesi; gli isolani da 36), disservizio postale, difficoltà per i viveri; a ciò si era venuto ad aggiungere negli ultimi tempi l’effetto delle disgraziate operazioni  in Sicilia ed in Calabria. Ne era conseguita una certa recrudescenza nelle diserzioni (ed avevo preso adeguati provvedimenti) ma i reparti erano saldi come dimostravano diuturnamente negli scontri coi ribelli imbaldanziti da una errata presunzione circa un nostro collasso; citavo in particolare il presidio di Almiros che, attaccato per tre notti in una settimana da forti bande ribelli, si era sempre esemplarmente difeso.

Questa lettera firmata il 7.IX fu spedita in Italia l’8 settembre ed ignoro se abbia potuto giungere a destinazione. La cito insieme con gli antefatti riferiti, in quanto da questo insieme si può vedere quale situazione si presentasse agli occhi del comandante dell’armata quando, nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, un ufficiale del comando fece irruzione nel suo ufficio per riferirgli che la Reuter aveva annunciato la conclusione di un armistizio tra l’Italia e le potenze anglosassoni.  Anche se la notizia fosse stata, come egli sperava, tendenziosa, ne derivava per lui un compito chiarissimo e urgentissimo. Occorreva evitare possibili conflitti nell’interno dell’armata mista ed il conseguente sfacelo delle unità italiane. Feci perciò chiamare il capo di S.M. tedesco, gen. v. Gyldenfeldt, e gli tenni questo discorso:  “La Reuter ha annunciato la conclusione di un armistizio tra l’Italia e gli Anglosassoni. Mi auguro ardentemente che si tratti di una notizia tendenziosa. Ma io e voi dobbiamo ricordarci di Kalamaky, ed è perciò nostro dovere di evitare ogni conflitto tra unità italiane e tedesche. Per ciò vi prego di comunicare a Salonicco (gr. arm. E) questi miei intendimenti per il caso che, in dannata ipotesi, la notizia fosse confermata; intendimenti che concreterò subito in un ordine di cui vi darò copia: 1° Le truppe italiane non faranno atti di ostilità contro le truppe tedesche a meno che non siano de esse attaccate, nel qual caso dovranno necessariamente difendersi. 2° Esse non faranno causa comune né coi ribelli né con gli anglosassoni che riuscissero a sbarcare. 3° Prendo impegno di mantenere efficiente la difesa costiera per un periodo di tempo da stabilirsi fino a sostituzione delle truppe italiane con truppe tedesche. 4° Prego darmi conferma che unità tedesche si asterranno de ogni atto di violenza contro truppe italiane”.

Il gen. v. Gyldenfeldt si recava a telefonare quanto sopra a Salonicco. Dopo circa una mezz’ora, durante la quale fu diramato il telegramma riportato nell’all.I°, tornava per comunicarmi che la notizia dell’armistizio era ufficialmente confermata e che la mia dichiarazione s’era incrociata (essendone superata) da un ordine pervenutogli da Salonicco che esigeva risposta immediata. In esso si poneva al comandante dell’armata il seguente dilemma:

= o, non riconoscendo l’armistizio, continuare ad operare senza  alcuna restrizione agli ordini del comandante gruppo armate E;

= o consegnare ai Tedeschi tutto l’armamento pesante ed i materiali. Altrimenti essi se ne sarebbero impadroniti con la forza.

Rispondevo di non poter accedere né all’una né all’altra richiesta e proponevo di rimanere nei termini della mia spontanea dichiarazione, la quale, in difetto di ogni conoscenza da parte nostra delle condizioni di armistizio e di ordini da parte del mio Comando Supremo, costituiva la miglior soluzione provvisoria, e mentre consolidava la situazione di efficienza nei riguardi del duplice nemico, consentiva di provvedere a ragion veduta al da farsi per l’avvenire.

Il gen. v. Gyldenfeldt replicava affermando di aver ordine di riferire entro pochi minuti la mia decisione circa il dilemma postomi. Gli chiarivo che non potevo accettare il primo corno in quanto non potevo rendermi ribelle, soprattutto pel fatto che gran parte delle mie truppe (probabilmente la maggiore, come i fatti hanno poi indirettamente dimostrato) non mi avrebbe seguito. Ed allora mi sarei trovato nell’atroce situazione di dover combattere con una parte dell’armata  italiana contro l’altra, la quale ovviamente si sarebbe appoggiata ai Greci; estendendosi, come era verosimile, il fenomeno nell’interno delle unità ne sarebbe risultato inevitabilmente lo sfacelo dell’armata stessa; e ciò io dovevo ad ogni costo evitare. Quanto al secondo era chiaro che nessun comandante avrebbe potuto aderirvi, specie per il tono minaccioso in cui era formulato. Si impegnava allora una concitata ma cortesissima discussione sulla minaccia che per le truppe tedesche avrebbe rappresentato, in caso di sbarco anglosassone, la cessione all’attuale nemico dell’armamento italiano che il gen. v. Gyldenfeldt riteneva logica conseguenza dell’armistizio. Gli replicavo che appunto perciò doveva accettare le mie proposte iniziali con le quali si veniva ad escludere tale possibilità in quanto, in primo tempo le unità italiane – in deroga provvisoria all’armistizio come dimostrava il tenore dell’ordine già in corso di diramazione, di cui gli davo copia conforme da me firmata – avrebbe combattuto contro le unità nemiche che tentassero di sbarcare; in secondo tempo avrebbero a ciò provveduto le truppe tedesche previa regolare sostituzione. Con ciò la discussione si spostava sul materiale da posizione costiero ed io non avevo alcuna difficoltà ad ammettere che, ritirandosi le truppe italiane dalle coste, dovessero cedere detto materiale in piena efficienza alle truppe tedesche subentranti, tanto più che esso era stato fornito in gran parte dallo stesso alleato. In compenso – e poiché la situazione degli spiriti quale appariva dal tenore della richiesta tedesca e quella materiale dell’armata (ben nota al gen. v. Gyldenfeldt) non consentivano una prolungata permanenza delle truppe italiane in Grecia – chiedevo che il comando tedesco provvedesse al trasporto dell’armata con tutto il suo materiale mobile in Italia per i seguenti probabili impieghi: combattere il bolscevismo che si sviluppasse colà in conseguenza del turbamento provocato dall’improvviso armistizio, mantenere l’ordine pubblico, eventualmente riprendere la lotta contro l’attuale nemico se frattanto le condizioni politico-militari fossero venute a cambiarsi. Ad un cenno d’incredulità del generale quando accennai a quest’ultimo possibile impiego, replicai che nessuno di noi due era profeta, che non avevamo né l’uno né l’altro un orientamento sulla situazione all’infuori della Grecia, che un armistizio non è una pace ed è per costruzione denunciabile dall’uno o dall’altro dei contraenti e poiché il trasporto dell’armata in Italia (prescindendo dal periodo di permanenza in difesa costiera) avrebbe richiesto non meno di due mesi e mezzo, ritenevo doveroso formulare anche questa ipotesi. Il generale, presa nota scritta dei risultati della conferenza, si allontanava per darne comunicazione a Salonicco.

Verso le 23 mi venne annunciato che il gen. Lanz desiderava vedermi. Il gen. Lanz era il comandante designato del XXII° C.A. tedesco il quale, con inizio dal 9.IX, doveva – per accordi intervenuti tra i due Comandi Supremi – sostituire in Tessaglia il nostro III° C.A. che doveva passare in Albania. Avevo già annodato con lui cameratesche relazioni.

Venuto il gen. Lanz si disse incaricato dal comando Gruppo Armate E di continuare le trattative iniziate con v. Gyldenfeldt. Riferendomi al noto dilemma io gli chiarivo il motivo essenziale per cui ritenevo che – oltre alla questione di principio che non si poteva ignorare – gran parte delle mie truppe non mi avrebbe seguito nel caso di una mia secessione. Da quando le operazioni di Sicilia avevano preso una piega assai sfavorevole, avevo dovuto lavorare non poco a raffrenare l’aspirazione specie dei Siciliani (che costituivano circa il 20% dell’armata) ad accorrere in difesa della loro terra. In genere tutti i comandi mi riferivano che le truppe capivano sempre meno l’opportunità di rimanere in Grecia quando la Madrepatria (da cui erano da sì lungo tempo assenti) era direttamente minacciata. Avevo detto, scritto e fatto dire che difendendo la Grecia si difendeva indirettamente l’Italia in Adriatico e Jonio e che ciò facevamo in fraterna collaborazione coi tedeschi così come essi facevano a fianco nostro in Italia. Ma era ovvio che tale argomentazione perdeva di valore, mentre lo stato di spirito dei Siciliani si estendeva necessariamente ai Meridionali e Centrali, man mano che gli Anglosassoni progredivano nella Penisola; ormai sarebbe diventato pressoché nullo. Il gen. Lanz era d’accordo circa l’impiego dei reparti italiani in difesa costiera come in atto fino alla sostituzione e successivo rimpatrio dell’Armata a cura dell’organizzazione tedesca da cui dipendeva l’unica ferrovia operativa Atene – Salonicco – Belgrado – Zagabria – Fiume. Dopo una serrata ma cordiale discussione sull’entità dell’armamento da portarsi al seguito, venne redatta la bozza d’accordo riprodotta nell’allegato II°. Il gen. Lanz si recava a riferirne promettendomi – a mia richiesta – che avrebbe dato ordine di riallacciare i collegamenti, che nella serata inoltrata erano stati tagliati.

Alle ore 4 del 9.IX torna il gen. Lanz e mi annuncia che, nonostante le sue più calde insistenze, l’O.K.W. (comando supremo tedesco) non ha ratificato l’accordo, da lui definito, e giustamente, il migliore che in quelle circostanze si potesse mettere insieme. Che resta fermo il trasporto dell’armata in Italia, ma in condizioni di pieno disarmo, salvo la pistola per gli ufficiali; egli deve perciò con suo grande dolore invitarmi a dare gli ordini relativi. Elevo formale protesta contro queste condizioni che non corrispondono al contegno franco e leale da me spontaneamente assunto fin dal primo momento e che nel corso della precedente conversazione era stato replicatamente e calorosamente apprezzato dallo stesso gen. Lanz. Questi mi dà ragione ma obbietta che si tratta di inderogabili necessità di sicurezza delle truppe tedesche e poiché io insisto sulla mia assoluta correttezza che non merita – come non meritano le mie truppe – una tale umiliazione, mi risponde che egli ha ordini che non può non eseguire pur comprendendo il mio stato d’animo ed appezzando sempre più la mia lealtà e correttezza. Finisco con l’ottenere che almeno venga lasciato alle truppe l’armamento individuale subordinando a ciò la mia adesione. Sottolineo che coi soli fucili non posso far certo difesa sulle coste e quindi mi considero sciolto da ogni impegno al riguardo. Il gen. Lanz ne conviene. Si stabilisce che i rispettivi plenipotenziari (per l’armata il ten. col. di S.M. Scoti, ufficiale molto capace e molto apprezzato dai tedeschi) concordino le modalità esecutive.

Circa alle ore 7 mi viene comunicato che il gen. Lanz, ritenendo ormai concluso l’accordo, intende far iniziare alle ore 10 la raccolta dell’armamento collettivo. Gli faccio dire che io intendevo emanare gli ordini dopo concluso il lavoro dei nostri rappresentanti e che d’altra parte la diramazione degli ordini (specie coi collegamenti tagliati) richiedeva tempo. Mi si rispose di valermi dei collegamenti tedeschi e che il gen. Lanz non può ritardare l’inizio del ritiro dell’armamento collettivo oltre le ore 12. Diramo allora l’ordine riprodotto nell’allegato III° e ne mando copia al mio ex capo di S.M. tedesco, diventato capo di S.M. di un nuovo gruppo operativo germanico (in sostituzione dell11ª armata). Successivamente i due delegati concludono gli accordi riassunti in un verbale a firma del delegato tedesco col. v. Bogen, capo di S.M. del comando Grecia meridionale, di cui le parti essenziali da me stralciate a suo tempo dal documento originale, rimasto in atti, sono riprodotte nell’all. IV°.

Successivamente prendo visione dei telegrammi giunti in mattinata da cui risulta che il comandante del XXVI° C.A. e quello della divisione Piemonte, hanno aderito per proprio conto alla richiesta tedesca di cedere le armi; do ordine (estendendolo più tardi alla divisione Cagliari) che si facciano restituire i fucili – conformemente all’accordo – ai reparti che li avevano lasciati. Mi è poi risultato che la cessione da parte delle truppe del Peloponneso (divisioni Piemonte e Cagliari) era avvenuta dietro invito diretto del loro comandante di C.A., il gen. ted. Felmy, che poneva loro lo stesso dilemma posto a me dal gen. v. Gyldenfeldt, completandone il secondo corno con la promessa di un rimpatrio onorevole, simbolizzato dall’arma individuale lasciata agli ufficiali.

Nel pomeriggio comunico personalmente l’ordine al capo di S.M. dell’VIII° C.A. parlando al telefono col gen. Ludwiger non essendo consentito sulla linea tedesca parlare italiano. Il giorno 10.IX si inizia il trasporto dell’armata. Destino come primo scaglione il 3° reggimento granatieri, bellissimo, perché desidero che in Italia si abbia subito l’impressione che dalla Grecia arriva una bella armata anche se per una triste fatalità sia dovuta passare per le Forche Caudine del disarmo.

Costituisco un ufficio trasporti (ten. col. Zucchi) ed un ufficio incidenti (col. di S.M. Amatucci) mentre ufficio operazioni (ten. col. Scoti) e intendenza (gen. Calendi) operano col gen. v. Gyldenfeldt per l’esecuzione il più possibile regolare delle varie operazioni. I reparti partivano completamente inquadrati; ad ogni gruppo treni giornaliero provvedeva un generale da me designato con funzione di comandante di scaglione.

Il giorno 10 o 11 dolorosa sorpresa. Il comando tedesco mi comunica che a causa della costatazione che parecchi soldati italiani avevano venduto il loro fucile ai Greci e che l’estendersi di tale fenomeno avrebbe in definitiva reso problematico lo stesso trasporto dell’armata aumentando l’efficienza delle bande disponeva per il ritiro dei fucili e mi pregava di dare analoghi ordini per la zona dl Atene (alla sicurezza delle truppe italiane avrebbero provveduto i comandi tedeschi). Poiché alcuni fatti erano effettivamente avvenuti e io stesso stavo ordinando che  i fucili fossero tenuti in caserma e non più lasciati anche per la libera uscita (mentre a ciò molto tenevo fino ad allora perché di fronte ai Greci fosse chiara la situazione di collaborazione coi tedeschi) dovetti adeguarmi. Ottenni una eccezione per i Carabinieri. Il giorno 12, essendomi stato riferito che agenti di Propaganda cercavano di indurre singoli militari italiani a passare senz’altro al servizio tedesco, feci scrivere al comando germanico che una tale attività – mentre era eminentemente pericolosa perché capace di determinare sfaldamenti anche verso le bande greche, pregiudicando quella coesione dell’armata che io cercavo ad ogni costo di tenere efficiente – era anche in contrasto coi patti intercorsi e quindi, ritenendola opera di agenti irresponsabili, pregavo di farla cessare. Da tale giorno davo personalmente ai comandanti di scaglione la direttiva di opporsi, durante il viaggio, ad ogni sfaldamento, in qualsiasi senso, dell’armata; e di fronte ad un eventuale aut aut da parte dell’alleato rispondere che prima doveva essere eseguito come da noi, esemplarmente, per quanto dolorosamente, fatto, l’accordo intercorso; giunti in Patria, in piena libertà e in pieno orientamento, ciascuno avrebbe potuto prendere, occorrendo, quella determinazione che la sua coscienza gli avrebbe imposto.

Scrissi anche in quel giorno al comando tedesco di consentire che il gen. Boncompagni, mio comandante del Genio, potesse precedere l’armata in aereo per prendere ordini dalle competenti autorità italiane. Mi fu risposto che ciò non era necessario in quanto l’arrivo di ogni scaglione sarebbe stato segnalato del Comando Supremo tedesco, solo a ciò competente, ai corrispondenti comandi in Italia.

Il giorno 9 o 10, a richiesta contemporanea dell’interessato e del comando tedesco, confermavo al comandante dell’isola di Cefalonia (gen. Gandin) l’ordine di cui all’All. 3. Uno o due giorni dopo, a richiesta  tedesca, ordinavo al XXVI° C.A. di confermare lo stesso ordine al comandante di Corfù (col. Lusignani). Le cose intanto si svolgevano, certamente per Atene, ed altrove secondo quanto mi riferiva il Comando tedesco, con tutta la regolarità conseguibile in quelle circostanze. Solo il giorno 17 feci interessare il gen. v. Gyldenfeldt perché provvedesse a ridare l’inquadramento completo a taluni reparti provenienti dal Peloponneso che mi risultavano poco in ordine.

Il giorno 18 il ten. col. Scoti è chiamato a conferire col gen. v. Gyldenfeldt il quale gli dichiara che il comandante delle truppe italiane di Creta, gen. Carta, contrariamente alla parola data, ha tentato di scappare con un motoscafo che è stato mitragliato e forse affondato; che in conseguenza l’0.K.W. (com. sup. ted.) ha ordinato di mettere al sicuro tutti i comandanti italiani. Gli consegna delle lettere per me con le quali mi si mette “sotto la protezione delle forze armate tedesche invitandomi a tenermi  pronto a partire insieme col mio capo di S.M., due aiutanti ed un attendente, l’indomani mattina per Belgrado nell’aereo personale del gen. Loehr, già mio superiore diretto, da lui messo cortesemente a disposizione. Ciò mi ripeterà alla partenza dal campo di Tatoi nel mattino del 19 in risposta alle mie rimostranze per l’ingiusto sospetto che con tale procedimento si faceva gravare su di me, mentre egli, che ben mi conosceva, doveva sapere come mai mi sarebbe passato per la mente di lasciare la Grecia altrimenti che con l’ultimo scaglione della mia armata,  come era mio inderogabile dovere. Gli soggiungevo che avevo rifiutato un’offerta fattami in proposito in quei giorni. A sua volta mi dichiarava che la misura era di carattere generale e non riguardava particolarmente me, di cui nessuno dubitava, che da Belgrado avrei potuto assistere al movimento ferroviario dell’Armata. Giunto nel pomeriggio a Belgrado, mi vidi con mia estrema, e non certo lieta sorpresa, aggregato a un trasporto di generali fatti prigionieri a Rodi e spediti sotto scorta della polizia a Schokken.

Giunsi colà nella convinzione di essere vittima di un equivoco; ma dovetti convincermi del contrario quando vidi giungere altri colleghi sia dalla Balcania sia dall’Italia.

Contrariamente alla mia intenzione iniziale, mi astenni allora dal fare rimostranze, fino al giorno in cui venni a sapere che le truppe, che in Italia non avevano fatto atti di ostilità contro i Tedeschi, erano state congedate. Presentai allora un esposto volto ad ottenere lo stesso trattamento alle mie truppe che mi risultavano ormai internate in vari campi della Germania, anziché rimpatriate. Sollecitavo una decisione con altro esposto in data 15.11 (allegato 5)[3]. Non so se ad indiretta risposta a tale esposto pervenne al campo una comunicazione dichiarante che tutti i patti locali conclusi tra comandanti italiani e tedeschi al momento dell’armistizio erano da considerarsi sorpassati dalle decisioni dell’O.K.W. di disarmare e di internare tutti i reparti che non avevano accettato di passare ai tedeschi.

Conclusione. = Comandante di Armata mista e senza avere ricevuto ordini specifici, ho ritenuto mio dovere di evitare spargimento di sangue tra unità che io avevo sempre tenuto, e molto evidentemente mostrato di tenere, alla pari nella mia considerazione e nel mio affetto di Comandante. Ho parlato ai Tedeschi a cuore aperto, comprendendo cameratescamente la loro situazione e con la sensazione che coloro con cui trattavo (particolarmente col gen. Lanz) comprendessero quella nostra; apprezzassero e secondassero per quanto potevano gli sforzi che io facevo per preservare la mia unità dallo sfacelo incombente, cercando alla fine di salvare il salvabile. Mi fu riferita in Atene una “voce del fante”: “Se il gen. Vecchiarelli riesce a riportarci in Italia, fa un miracolo”.

Mi è mancata, purtroppo, tale capacità taumaturgica, e non potrò darmene pace finché avrò vita: ma la fede, il coraggio, il paterno affetto per i miei soldati, mai. Mio unico desiderio rimanere in tale atteggiamento nella loro memoria.

All. I°   =  All. 2) della Relazione

All. II°  =    “   3)        “           “

All. III°=    “   4)        “           “

All. IV°=    “   5)        “           “

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[1] Si può notare come il testo risulti simile, per alcuni aspetti, a quello di alcuni passi della Relazione successivamente presentata alla Commissione di epurazione italiana, ma non contenga – come sottolineato dal gen. Vecchiarelli nella Relazione stessa – alcun accenno al Promemoria N. 2.

[2]CC NN = Camicie Nere

[3]Trattasi dell’Allegato 7 alla Relazione