Il primo ricorso

 

Roma, 30 novembre 1945

Riferimento al foglio N/o 736 del 5 settembre u.s.


OGGETTO:  E s p o s t o

AL MINISTERO DELLA GUERRA

GABINETTO – Ufficio Generali

ROMA


La Commissione Epurazione  Personale Militare presso codesto Ministero, con sua lettera in data 23 ottobre u.s. N/o 14145, mi ha comunicato di aver deliberato non farsi luogo a procedimento nei miei confronti e non essere al mio caso applicabile il primo capoverso dell’art. 22 del D.L.L. N/o 159 del 27 luglio 1944.[1]

A tale deliberazione la Commissione suddetta è pervenuta a seguito visione degli stessi atti da me presentati alla “Commissione per l’esame del comportamento durante e dopo l’armistizio” senz’altro mio interrogatorio; mi è perciò venuta a mancare la possibilità di prender visione dei giudizi che hanno portato all’adozione nei miei riguardi del provvedi- mento notificatomi col foglio a riferimento. Sono quindi costretto a procedere in via d’ipotesi per rendermi conto degli appunti che possono essermi stati fatti.

Pur sapendo che il decreto applicato nei miei confronti non consente la presentazione di reclami, ritengo doveroso, ora che la citata deliberazione è divenuta definitiva per non intervenuto appello dell’Alto Commissario,[2] – e non tanto nell’interesse mio personale quanto per il buon nome dei Generali del Regio Esercito, oggi con tanta leggerezza vituperato dalla pubblica opinione – fornire quegli ulteriori schiarimenti che possano prima o poi valere a far ritenere giusta la revisione del mio caso, schiarimenti che sono ora costretto ed esporre sulla detta base ipotetica, ma che naturalmente sarei ben lieto di completare ove mi si volesse interrogare più a fondo, convinto come sono che da una maggior luce il mio operato non ha che da guadagnare in considerazione.


A) EVENTUALI APPUNTI DI NATURA POLITICA.

Poiché l’Alto Commissario Aggiunto mi aveva denunciato in base all’art. 13 del D.L.L. N/o 159 del 27 luglio 1944[3] e la Commissione – senza che l’Alto Commissario stesso abbia interposto appello – dichiara l’articolo stesso non applicabile nei miei riguardi, debbo ritenere non sussistere contro di me appunti di natura politica.  Ed in ciò mi conferma la piena coscienza di non essere mai stato un politicante, ma sempre e soltanto un soldato; di aver fatto sempre e semplicemente il mio dovere: senza far mai pressioni, pratiche od istanze di sorta per ottenere un posto ambito o per sfuggire ad una destinazione meno gradita; senza mai cedere a pressioni od istanze altrui, da qualunque parte venissero, per derogare da quella che ritenevo essere la via giusta; senza mai appartenere a clientele o – giunto ad un certo grado – aver mai tendenza a formarmene.

Ho sempre odiato gli arrivisti, i piaggiatori, i trafficanti; e come nella mia opera educativa non ho mai fatto mistero di questi miei sentimenti, cercando anzi di propagarli, così all’atto pratico mi sono sempre regolato in conseguenza. Potrei, occorrendo, citare fatti e testimonianze: ma mi lusingo di essere ben conosciuto sotto questo aspetto.


B) EVENTUALI APPUNTI DI XENOFILIA.

Né sotto l’aspetto internazionale ho mai sofferto di “filie”.

Nei riguardi degli stranieri non ho mai fatto altro che attenermi volta a volta alle istruzioni superiori: esponendo, in fase informativa o deliberativa, francamente il mio obiettivo parere anche se lo potessi ritenere meno conforme a quello dei superiori; in fase esecutiva eseguendo gli ordini: sempre tenendo presenti gli interessi dell’Italia e degli Italiani. Se il mio libretto personale non è andato perduto, non dev’esser difficile trovarvi tracce di questo mio costante modo di comportarmi, in tutti i casi in cui ho avuto incarichi all’estero o comunque relazioni con stranieri.

E di tale mio modo di pensare e di agire, ritengo di aver dato non dubbia prova, anche nei riguardi dell’ex-alleato, nella dolorosa vicenda di Grecia.

Infatti:

  1. già come Sottocapo di S.M. alle operazioni, avevo replicatamente sottoposto alla firma del Capo di S.M. (gen. Ambrosio in primo tempo, gen. Rosi in secondo tempo) promemoria per il Comando Supremo tendenti a far richiamare in Paese il maggior numero possibile delle unità sparse nei Balcani. Nei riguardi della Grecia proponevo lo sgombero delle nostre divisioni dal Peloponneso per far massa nella Grecia settentrionale; ed escludevo deliberatamente l’eventuale sgombero della Tessaglia, per evitare che, in caso di sbarco anglosassone, i Tedeschi, tendendo a Salonicco ed al Vardar e disinteressandosi di noi, come già verificatosi nelle ritirate di Russia e di Libia, mettessero in pericolo l’Albania.  Quale comandante dell’armata di Grecia rinnovai, dopo solo qualche giorno dall’assunzione di comando, analoga proposta, che non fu accolta.
  2. Appena subodorata l’intenzione superiore di porre l’11a armata agli ordini del Comando tedesco di Salonicco, mi affrettai a segnalarne l’inopportunità al mio Superiore diretto, gen. Rosi, comandante il gruppo d’armate di Tirana, che ne riferì al Comando Supremo. Ma inutilmente.
  3. L’annuncio dell’ormai imminente costituzione dell’armata mista mi venne dato personalmente dal Comandante del gruppo d’armate di Salonicco, gen. Loehr, che venne in Atene il 27 luglio.  Alla sua domanda, se io fossi contento di tale combinazione, risposi: che io non avevo ricevuto alcun preavviso in proposito; che per evidenti ragioni di tatto non potevo rispondere né affermativamente né negativamente alla sua richiesta; che pertanto avrei eseguito quegli ordini, che fossi per ricevere.
  4. Giunti gli ordini e riscontratili, sotto l’aspetto operativo, razionali, non sollevai obiezioni. Rappresentai però l’opportunità di costituire un comando territoriale italiano del Peloponneso, cui le divisioni Piemonte e Cagliari (operativamente sottoposte, nell’ordine di battaglia concordato tra i due Comandi Supremi, al Comando LXVIII C.A. tedesco) potessero far capo per la parte non operativa. In detto Comando le due divisioni avrebbero inoltre trovato un pronto sostegno, ed il comando d’armata un efficace intermediario, nel caso di eventuali intemperanze del Comandante alleato. Facevo per tale incarico la designazione del gen. Zannini, già mio apprezzato vice-comandante alla divisione Murge. La proposta non fu accolta: mi dovetti limitare a costituire un piccolo S.M. operativo italiano presso il detto C.A. tedesco, che rese poco.
  5. Avvenuto l’incidente di Kalamaky (del quale, per sopravvenute precisazioni, rettifico la data al 1° agosto) mi affrettai a notificare a Roma la mia convinzione che i Tedeschi stessero predisponendo un piano per aggredirci nel caso di defezione dell’Italia. Era superfluo aggiungere per un Comando Supremo, come lo schieramento superiormente stabilito per l’armata mista (che non era in facoltà del comando d’armata di modificare) mettesse in tal caso le unità italiane alla mercé dei Tedeschi. Mi si rispose con la nota direttiva: “tenere ben fermo che noi combatteremo fino alla fine a fianco dell’alleato”, cui io risposi, a precisazione di responsabilità, “applico direttiva ricevuta nella lettera e nello spirito”. Data approssimativa dei due messaggi, attorno al 10 di agosto: quando ormai la Sicilia era gravemente minacciata e per la Grecia l’orizzonte si faceva oscuro. Che cosa doveva fare il Comandante della Grecia in quella situazione e con quelle direttive? Prepararsi seriamente a fronteggiare il non lontano urto anglosassone (che non era da prendere alla leggera, e sarebbe certamente accompagnato da moti rivoluzionari alle spalle dei difensori) utilizzando nel modo più redditizio tutti i mezzi italiani e tedeschi ai suoi ordini. Se ciò non avesse fatto per diffidenza verso i Tedeschi, e si fosse fatto battere, quali giustificazioni avrebbe potuto addurre contro la nettissima direttiva ricevuta?
  6. In questo tempo, il 3/o regg. Fanteria della Piemonte ed alcuni gruppi d’artiglieria italiani vengono spostati dal Peloponneso a Zante, ove affluisce pure quel btg. da fortezza (cioè specialista in occupazioni difensive) che in giugno non avevo voluto; si ricostituisce integralmente la Acqui binaria a Cefalonia (lasciandovi trasportare i due Btg. da fortezza tedeschi già in progetto, per ovviare alla deficiente difesa della penisoletta di Lixury) e resistendo con risultato positivo all’ordine tedesco di sostituire con altri reparti il 18/o Ftr. a Corfù, dove per altro affluiscono alcune batterie antinave tedesche, destinate particolarmente a fiancheggiare gli adiacenti sbarramenti marittimi. L’invio di detti reparti tedeschi (a suo tempo doverosamente notificato) è ora stato criticato. Ma io torno a chiedere, come ho fatto nel rispondere ad analogo questionario; “se avessi perduto le Isole, mi sarebbe valsa come giustificazione la riluttanza ad impiegare, accanto ad unità italiane assai più forti, gli accennati reparti speciali tedeschi”?
  7. Avvenuto lo sbarco in Calabria, subito dopo l’occupazione dell’Aspromonte, mi preparo a prospettare al gen. Loehr (e ne faccio qualche accenno preliminare a v. Gyldenfeldt, in relazione al problema di Corfù) come dalla ormai prevedibilmente prossima occupazione anglosassone delle Puglie deriverà un sostanziale mutamento nella posizione strategica della Grecia, ed a proporre di far massa con le unità italiane su di un fronte approssimativo Pindo-Olimpo, lasciando più a sud, dietro un leggero velo di osservazione, le unità tedesche più modernamente attrezzate e più mobili.  Se l’armistizio fosse stato ritardato di qualche settimana, questo avrei potuto forse realizzare, migliorando sostanzialmente la situazione delle nostre truppe; e questo prospettavo al Comando Supremo con la mia lettera rimasta purtroppo allo stato di minuta (poi dovuta distruggere) quando all’ultimo momento mi pervenne il promemoria col quale mi si annunciava la “possibilità” della conclusione di quell’armistizio separato, che in realtà era stato già sottoscritto da ben 4 giorni, senza che nemmeno il latore del messaggio ne fosse stato in qualche modo avvertito. Ma di ciò tratterò a parte.
  8. In fine la prova più decisiva dell’assenza in me di particolare “filia” mi sembra di averla data all’arrivo delle nuove istruzioni, col respingere senza esitazioni la suggestione, che mi veniva dall’alto, a risolvere la tragica situazione dell’armata col sia pure apparente tradimento: enormità che, per scansare un baratro, ci avrebbe gettato in altro ben più profondo. Per mantenere su questa linea me stesso, i miei dipendenti, i compagni di prigionia, sopportai poi l’internamento, la consegna (con chiaro scopo) al sedicente governo repubblicano, il carcere, ed infine la tendenziosa condanna, dalla quale nessuno ha ancora provveduto a riabilitarmi: anzi col collocamento in congedo assoluto si viene ora ad ulteriormente infamarmi.

Ma sia pur prescindendo da questo mio atteggiamento finale, sul quale ritornerò, ed anche attenendomi ai soli 7 punti che precedono, un osservatore il quale riesca ad immedesimarsi (per difficile che gli sia il supporre di ignorare il poi) nell’ambiente di allora, quale doveva apparire ad un comandante lontano dalla Patria, con direttive assolutamente lealistiche nei riguardi dell’alleato e privo anche di contatti ufficiosi (negli ultimi 20 giorni mancò fin anche la posta), deve riconoscere com’esso comandante ebbe, malgrado tutto, sempre e soltanto presenti – all’infuori di qualsiasi inammissibile filia personale, – gli interessi morali e materiali dell’Italia e della propria armata.

Sottoposto contro il suo esplicito parere alle dipendenze di un comando tedesco e messo a capo di un’armata mista, ha visto tutte le sue proposte respinte, il suo gravissimo allarme posto – almeno apparentemente – in non cale; ha ricevuto, negli ultimissimi giorni, una severa diffida contro presunte tendenze ellenistiche delle sue truppe; si è sentito confermare e ribadire sempre la stessa direttiva operativa. A questa ha obbedito, com’è dovere di ogni soldato, nel modo che doveva apparirgli migliore, senza aver mai la minima ragione di dubitare che non incontrasse la superiore approvazione.

Il suo errore – sembra – consisterebbe nel non aver intuito (verrebbe quasi fatto di dire profetizzato) che le istruzioni superiori erano da interpretare al contrario del loro significato letterale.

Ma se, come si dice, questo suo errore era voluto dall’autorità superiore per i suoi fini particolari, come si può far carico all’esecutore di aver fedelmente obbedito?


C) LA LETTERA AL COMANDO SUPREMO.

La mia decisione di scrivere al Comando Supremo per rappresentare l’estrema difficoltà di applicazione delle sue direttive dell’ultim’ora (che erano poi, a mia insaputa, addirittura postume) in relazione alla tragica situazione che si sarebbe venuta a determinare con la proclamazione dell’armistizio separato, è stata criticata (N/o 10 del questionario).

In proposito è da rilevare – a complemento di quanto dichiarato in risposta al detto quesito – che:

  1. dal promemoria venivo a comprendere finalmente lo scopo del disposto passaggio in Albania del III C.A.. Ora, questo movimento doveva iniziarsi il giorno 9 settembre; ed era logico supporre che, potendo, si sarebbe ritardato l’armistizio fino a movimento ultimato; altrimenti si sarebbe determinata una nuova crisi nella crisi. E il movimento non avrebbe potuto ultimarsi – malgrado tutti gli accorgimenti che mi accingevo ad attuare, come detto nella Relazione – prima di una quindicina di giorni;
  2. il ritorno di Gandini (assente da oltre 20 giorni) era vivamente atteso da oltre una settimana. Telefonate da Roma ne avevano erroneamente segnalato un paio di volte la partenza. Io ero stato sul punto di recarmi in volo a Roma per rendermi conto dei non chiari ordini che mi stavano pervenendo coi quali mi si toglievano, oltre il III C.A., anche tutte le truppe d’armata che lo rinforzavano, lasciando in Atene (ed in Attica) il comando d’armata senz’altre truppe italiane che pochi Carabinieri, anch’essi fortemente depauperati da recenti rimpatri. Ci avevo dovuto rinunciare per l’assenza del Capo di S.M. e pel fatto che, in conseguenza di scioperi in corso in Atene, il comando di Salonicco pretendeva da me l’adozione di misure di rigore che io mi rifiutavo di prendere; e non vedevo chi avrei potuto incaricare, durante la mia assenza, di tenere i Tedeschi al loro posto.

Grande doveva essere la curiosità dell’alleato di constatare se e quali mosse io avrei fatto in seguito all’arrivo di Gandini. Da ciò la mia decisione di non fornire il minimo sintomo di importanti novità in vista. Perciò:

  1. l’invio in visione al Comandante della Siena del promemoria (che era prescritto mandare in originale) doveva avvenire per mezzo di un messo viaggiante sull’ordinario aereo del giorno 9 (superfluo rilevare le conseguenze di una “casuale” cattura di un messo speciale col documento completo);
  2. era da escludersi la immediata convocazione in Atene dei Comandanti di C.A. italiani, anche perché, fra l’altro, non si sarebbe giustificato facilmente il mancato invito al Comandante del LXVIII C.A. tedesco, mentre era indispensabile prendere contatto con almeno uno dei divisionari italiani da lui operativamente dipendenti. E poiché il promemoria prescriveva contatti esclusivamente verbali, era necessario che mi spostassi io e nel modo meno appariscente, utilizzando cioè l’occasione che mi si offriva propizia di un viaggio già notoriamente progettato, proprio nella direzione, Agrinion, più redditizia in relazione ai nuovi compiti, in quanto mi dava modo di conferire – nelle circostanze apparentemente più naturali – coi Comandanti dei C.A. VIII e XXVI e col Comandante della Piemonte, che avrebbe potuto, a sua volta, passar parola a quello della Cagliari. La data di questo viaggio era stata fissata al 10 – e non poteva essere anticipata senza dar nell’occhio – in causa dell’assenza dalla sede del Comandante VIII C.A., il quale sarebbe rientrato dal suo giro d’ispezione a Cefalonia, come di fatto avvenne, solo nel pomeriggio del nove.
  3. Le due giornate intercorrenti prima della mia partenza sarebbero state ovviamente utilizzate per imbastire i progetti da discutere coi vari comandanti, ai quali non potevo certo presentarmi in condizioni di tabula rasa. Frattanto mi appariva di estrema urgenza redigere la nota lettera al Comando Supremo, e non potevo che essere io stesso a redigerla, come feci. Da questo mio atto (che corrisponde all’inderogabile dovere di ogni subordinato il quale non sia del tutto convinto – in base alla sua situazione specifica – della bontà degli ordini ricevuti e ritenga di poter prospettare una miglior soluzione, salvo ad obbedire ove questa non venga accolta) avrebbe potuto derivare un grandissimo bene se – come io da tale passo mi ripromettevo – ne fosse scaturita la necessaria disponibilità di tempo; comunque nessun danno data la impossibilità di anticipare senza serio pericolo la mia partenza.

Tutto ciò naturalmente in base all’orientamento che potevo avere allora.

Oggi, col senno di poi, si può forse obiettare che avrei dovuto essere meno prudente; se pure sia difficile dire con quale risultato, dato il modo in cui le cose sono precipitate. Ma quale sarebbe oggi, e nella storia, il giudizio su quel comandante che, essendo indubbiamente (e non per sua colpa) il più controllabile da parte dell’ex alleato, fra tutti i comandanti italiani, avesse con una condotta avventata determinato – proprio lui – quel cataclisma che doveva esser causato qualche ora dopo dal disgraziatissimo, inatteso, annuncio Reuter?


D) IL CONTROLLO TEDESCO SUL COMANDO 11a ARMATA.

A proposito della controllabilità del Comandante 11a armata da parte dell’ex-alleato, è stato criticato l’uso esistente presso quel comando che ogni disposizione operativa complessa* prima di essere presentata alla mia firma, fosse collaudata dai due S.M., italiano e tedesco. Mi sorge il dubbio di non avere sviluppato adeguatamente l’argomento nel rispondere al N/o 7 del questionario, limitandomi a rimandare alla relazione, nella quale sono esposte unicamente le ragioni di prestigio per cui si dovevano e volevano prevenire eventuali obiezioni dei comandi tedeschi, superiore e dipendenti, basate su particolari dottrine od usi germanici.

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* Non ho aggiunto questa parola nella relazione; ma trattandosi di un comando di armata mista, è naturale che così fosse.

Ma la parallela elaborazione delle disposizioni operative (e di quelle addestrative che delle prime costituiscono preparazione e controllo) era nella natura stessa delle cose dato che:

  1. le istruzioni concordate tra i due comandi supremi per il funzionamento dell’armata mista conferivano al Capo di S.M. tedesco la facoltà di rappresentare al Comandante le proprie vedute circa la situazione e l’impiego delle truppe tedesche, restando naturalmente libera al Comandante stesso la decisione, che il Capo di S.M. doveva poi tradurre in ordini quale essa fosse (questo almeno in teoria, perché avendo egli anche funzioni di collegamento col comando gruppo armate, non gli sarebbe stato difficile far ricorso all’appoggio di questo per far pressione sul Comandante d’armata).  Nella situazione dell’armata, risultando (per ordine superiore) misti tutti i C.A. meno uno (che però aveva nel suo territorio una divisione tedesca, cui poi si aggiunsero tre reggimenti di polizia), le interferenze operative tra unità delle due nazionalità erano continue; particolarissima era poi la situazione del Peloponneso, dove le divisioni italiane erano (sempre per ordine superiore) alle dipendenze operative del Comandante LXVIII C.A. germanico;
  2. le divisioni germaniche dei tre C.A. misti erano tutte di manovra, le italiane (più qualche btg. da fortezza tedesco) in copertura costiera. Sia le nostre istruzioni sia le tedesche prevedevano necessariamente l’obbligo, per i Comandanti delle unità di manovra, della minuta conoscenza dello schieramento di quelle in copertura nei tratti del proprio probabile impiego. E’ anche razionale che detti comandanti possano proporre qualche modifica al detto schieramento – specie sulla base di esercitazioni combinate – che possa facilitare e rendere più efficace il loro intervento al momento voluto, nel quale essi dovranno assumere, nei tratti di impiego, la responsabilità dell’insieme. E’ per altro lampante che, quando invece si fosse trattato – come nel caso finale – di ordini diretti contro l’alleato, che avrebbe potuto diventare nemico, la collaborazione sarebbe stata scartata e fuorviata (cfr. precedente punto B/7); e probabilmente sarebbe stata   proprio la precedente correttezza a favorire – eliminando o attenuando l’altrui diffidenza che un nostro contrario atteggiamento avrebbe invece acutizzato – l’attuazione dei nuovi propositi.

Il precipitare della situazione per l’intempestivo annuncio americano, lo impedì.


E)  LA DECISIONE FINALE.

Vengo alla decisione finale, per la quale ritengo opportuno ripetere – a modo di conclusione – quanto ho scritto alla Commissione di epurazione in accompagnamento della documentazione richiestami:

“Ritengo che dall’annessa documentazione debba risultare chiaro come io – tenendo presenti l’autorizzazione e le direttive contenute nel promemoria N/o 2 del Comando Supremo, nonché i commenti riferitimi del Ministro della Guerra e del Sottocapo di S.M. generale (v. Appendice §§ A e D, e Relazione pag. 7) – abbia dovuto forzatamente applicare il criterio del minor danno, cercando di realizzare – per caro che ne divenisse man mano il prezzo (non ostante i miraggi d’impiego che cercavo di far balenare per ridurlo) – quel rimpatrio ordinato ed onorevole dell’armata, che era imposto dalla situazione per essa inopinatamente creatasi (cfr. Relazione pagg. 8-9) e che, corrispondendo d’altra parte ad una acutissima aspirazione delle truppe, mi appariva altresì come l’idea-cemento che avrebbe sottratto l’armata stessa dallo sfacelo incombente, mantenendone integra la fedeltà (v. Relazione pagg. 19-20) e salvandone ad un tempo, per quanto possibile, compagine e decoro.

Lo stesso rapporto Labus[4] (che ho visto acquisito al mio fascicolo presso codesta Commissione) fornisce la prova della sorte che avrebbe atteso l’intera armata (200.000 uomini nel complesso) se io avessi agito diversamente, e concorre con dati di fatto a confermare la valutazione espressa, nei due ultimi capoversi, a pag. 15 della Relazione.

“Tuttavia, di fronte ad un ordine categorico, chiunque mi conosca sa che non avrei esitato. Ma che si sarebbe detto di me se, essendomi stata conferita notevole libertà di decisione, allo scopo di salvare l’armata, l’avessi invece deliberatamente lanciata incontro allo sfacelo, rifiutando la possibilità che mi si offriva di un onorevole rimpatrio? Non sarebbe apparso un voler preservare la mia fierezza personale a prezzo dello sterile sacrificio di coloro, la cui salvezza era stata posta nelle mie mani?

“In tale tragica alternativa ho ritenuto doveroso anteporre l’armata a me stesso, col prendere su di me quella tremenda responsabilità, convinto di aver eseguito nel modo meno peggiore realizzabile le direttive superiori, delle quali non potevo – né sapevo se e quando avrei potuto – rivelare l’esistenza.

“Purtroppo – e certamente come riflesso di fatti estranei all’ambiente Grecia, che io, con l’orientamento di cui allora disponevo, non potevo prevedere (v. Appendice § A pag. 5, e § D) – il patto fu, ad un certo momento, violato e l’armata ridotta in cattività; né valsero a cambiarne la sorte le proteste mie e degli altri Comandanti d’armata, dall’arbitraria prigionia (v. Relazione pag. 24).

“Il destino mi è stato avverso; ma – col sempre cocente dolore che non mi sia stato dato di fare di più e di meglio – mi resta la convinzione di aver tentato, per la salvezza della armata e per il realizzabile decoro dell’Italia, tutto quanto in quella situazione dovevo e potevo”.

In sintesi: la situazione risultante al momento dell’armistizio, e le decisioni successive, sono derivate consequenzialmente dalle direttive ricevute dal Com.te dell’11ª A.; direttive che egli ha cercato di applicare – tanto prima quanto dopo – nel modo migliore, o meno peggiore, possibile.

Confido che alla luce di questa inoppugnabile verità, codesto Ministero vorrà tornare sul grave provvedimento inflittomi, che sento in coscienza di non meritare.

IL GENERALE DESIGNATO D’ARMATA

  Carlo Vecchiarelli

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[1]Trattasi del già citato decreto intitolato ”Sanzioni contro il fascismo”. Tale capoverso così recita: “L’impiegato dispensato dal servizio è ammesso a liquidare il trattamento di quiescenza che possa spettargli a norma delle disposizioni vigenti. Nei casi più gravi può essere disposta la perdita del diritto a pensione”.

[2]L’ “Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo” era stato istituito con citato il D.L.L. n. 159 del 27 luglio 1944. Alto Commissario venne nominato il conte Carlo Sforza (allora indipendente e successivamente vicino al Partito Repubblicano Italiano), mentre al “Commissariato aggiunto per l’epurazione” venne preposto l’on. Mauro Scoccimarro (esponente del Partito Comunista Italiano).

 [3]Tale articolo così recita: “Sono altresì dispensati dal servizio i dipendenti dalle Amministrazioni di cui all’Art. 11 (che definiva le categorie di personale civile e militare interessato, ndc.), i quali abbiano dato prova di faziosità fascista o della incapacità o del malcostume introdotti dal fascismo nelle pubbliche Amministrazioni. Qualora dal giudizio di epurazione risultino elementi di reato, dovrà esserne fatta denuncia all’autorità competente

[4] Il magg. Giuseppe Labus nel 1944 aveva rilasciato dichiarazioni, riprese dalla stampa italiana e svizzera, sugli avvenimenti in Grecia, ove si trovava all’epoca dei fatti.